Sulla carta è un diritto garantito, nella realtà è un percorso a ostacoli. Le donne che decidono di abortire in Italia devono superare difficoltà di ogni tipo: oltre ai medici che esercitano l’obiezione di coscienza, ci sono intere strutture che, pur avendo il reparto di ginecologia, non eseguono interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg). Senza contare che l’aborto farmacologico con la pillola Ru486 è praticamente impossibile per chi vive al Centro-Sud e che chi deve sottoporsi a un aborto terapeutico spesso deve farlo all’estero. Un quadro che non collima con la lettura ‘rassicurante’ fatta dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, con l’ultima relazione al parlamento sulla legge 194 (ora all’esame della Commissione affari sociali della Camera) secondo cui è vero che ci sono tanti medici obiettori, ma poiché gli aborti sono in calo, il loro numero è congruo rispetto alla domanda. Una ‘favola’ secondo i ginecologi della Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194 (Laiga), le cui cifre sono ben peggiori.
I dati del ministero. L’Italia può vantare un tasso di aborti tra i più bassi fra i paesi industrializzati. Nel 2012 le ivg sono state 105.968, il 4,9 per cento in meno rispetto al 2011, e ben il 54,9 per cento in meno rispetto al 1982. Come negli anni scorsi, cala l’aborto tra le giovani in Italia rispetto agli altri Paesi europei, la percentuale di aborti ripetuti e di quelli dopo 90 giorni di gravidanza. Alto, anche se si sta stabilizzando, il numero delle donne straniere che interrompono le gravidanza: sono una su tre. Continua invece senza sosta l’aumento dei medici obiettori, cresciuti del 17,3 per cento in 30 anni. La media nazionale è del 70 per cento di ginecologi obiettori, con le regioni del Sud che superano quasi tutte l’80 per cento (Campania, Molise e Sicilia in testa con quasi il 90 per cento), del 47,5 per cento tra gli anestesisti e del 43,1 per cento tra il personale non medico.
Obiezione di struttura. Secondo i dati della Laiga, esiste anche una “obiezione di struttura”. In molti ospedali cioè i servizi per le interruzioni volontarie di gravidanza non esistono pur essendoci il reparto di ginecologia. Per cui i medici che ci lavorano sono obiettori di fatto, ma vengono conteggiati fra i non obiettori. Su un totale di 441 ospedali nel nostro Paese con reparti di ostetricia e ginecologia, 178 ospedali non effettuano aborti nei primi 90 giorni.
Aborti terapeutici. Ancora più difficile la situazione di chi decide di abortire dopo i primi 90 giorni con l’aborto terapeutico, cioè quando c’è un grave pericolo per la vita della donna, o siano accertati rilevanti malformazioni del feto, che determinino un grave pericolo per la salute della madre. Rispetto ai 441 ospedali di cui sopra, solo 54 praticano questo tipo di ivg. Una situazione che spinge molte donne a emigrare all’estero per dover abortire, spendendo anche parecchio. Francia, Svizzera e Inghilterra sono tra i paesi cui ci si rivolge. Nel 2012, secondo i dati del governo britannico, circa il 2% degli aborti legali eseguiti nel Paese sono stati praticati a donne italiane. Le seconde, per numerosità, dopo le irlandesi. “Questo perché – spiega Mirella Parachini, ginecologa dell’associazione Coscioni – la 194 prevede che se il feto è dotato di vita autonoma al momento dell’aborto, bisogna rianimarlo. Eventualità frequente quando l’aborto terapeutico avviene dopo la 22ma settimana, cosa che accade spesso perché in molti casi si arriva alla diagnosi in ritardo”.
Ru486. Abortire con questa pillola è molto difficile nel Centro-Sud, meno in quelli del Nord. Ad esempio nel Lazio l’unico ospedale che la adopera è il San Camillo di Roma fino alla 10/a settimana, oltre ad Anzio e Nettuno nelle prime due settimane. La media nazionale, secondo i dati del ministero della Salute, è del 7,3%, con i valori più alti Val d’Aosta (24,9%), Liguria (21,8%), Emilia Romagna (16,8%) e Piemonte (13,8%). A incidere negativamente sul suo ricorso è l’obbligo di ricovero di tre giorni, con la predisposizione di un letto a parte per queste pazienti. Cosa piuttosto difficile in tempi di tagli di risorse, letti e personale. Nella realtà almeno il 76 per cento delle donne chiede le dimissioni volontarie dopo aver preso la pillola.