La richiesta del Comune indirizzata a Emilio Riva, 87enne ex patron dello stabilimento siderurgico, e a Luigi Capogrosso ex direttore della fabbrica che "ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell'organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”
Ammonta a oltre tre miliardi di euro il maxi risarcimento chiesto dal comune di Taranto all’Ilva spa, a Emilio Riva, 87enne ex patron dello stabilimento siderurgico, e a Luigi Capogrosso ex direttore della fabbrica. Un conto salato quello presentato dai legali Massimo Moretti e Giuseppe Dimito che ieri hanno depositato al tribunale civile la citazione a giudizio. Una richiesta che si basa sulla stima dei danni patiti dal comune ionico per l’inquinamento dovuto all’emissioni della fabbrica condannata in via definitiva nell’ottobre 2005, pochi giorni dopo la decisione dell’allora sindaco di Taranto, Rossana Di Bello, di ritirare la costituzione di parte civile per firmare un protocollo di intesa con i Riva.
Anche la provincia di Taranto, guidata allora dal presidente Gianni Florido, imputato per tentata concussione nella maxi inchiesta e finito in carcere il 15 maggio dello scorso anno, decise di ritirare la costituzione nel processo. Protocolli d’intesa sui quali i magistrati sono stati chiari: “Non può non segnalarsi – si legge nella richiesta di sequestro degli impianti – quella che senza timore di essere smentiti può essere definita la più grossolana presa in giro compiuta dai vertici Ilva attraverso i primi atti di intesa sottoscritti dall’attuale gruppo dirigente (la famiglia Riva, ndr). Si tratta, tra i più recenti, di ben quattro atti di intesa sottoscritti da Ilva volti a migliorare le prestazioni ambientali del siderurgico. Il primo in data 8 gennaio 2003, il secondo in data 27 febbraio 2004, il terzo in data 15 dicembre 2004 e il quarto in data 23 ottobre 2006”.
Accordi, cioè, tutti puntualmente disattesi le cui conseguenze sono ricadute, naturalmente su operai e cittadini. Nella stima dei danni, i legali hanno conteggiato di tutto: dai palazzi del quartiere Tamburi al cimitero situato a pochi metri dal parco minerali e sommerso dalle tonnellate di polveri che ogni anno si sollevano dal parco minerali, dalle spese sopportate direttamente dal comune e indirettamente attraverso le società partecipate dall’ente. Non solo. Nella richiesta, ovviamente compaiono, anche i danni di immagine subiti dalla città dopo i fatti del 26 luglio 2012, giorno in cui il gip Patrizia Todisco dispose il sequestro senza facoltà d’uso degli impianti.
Ma tra gli elementi tenuti in considerazione dal collegio difensivo ci sono anche le maxi perizie, ambientale ed epidemilogica, che hanno per la prima volta certificato il disastro di Taranto. Relazioni che hanno ufficializzato il grave danno arrecato dalle “notevoli quantità di inquinanti rilasciate dalle emissioni convogliate dello stabilimento Ilva, ed in particolare quelle associate alla massima capacità produttiva degli impianti stessi” alle quali devono “essere anche sommate le quantità di inquinanti rilasciate con le emissioni non convogliate, diffuse e fuggitive”. Un quadro allarmante che “ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”.