Se nasci donna o re, asso o cavaliere, il futuro ti sorriderà; se nasci “liscio” vivrai un’esistenza molto grama.
Scartine alla ricossa
Puoi solo sperare che un giorno si aprano per te le porte del paradiso: ricordando l’evangelico “Et ecce sunt novissimi qui erunt primi, et sunt primi qui erunt novissimi” (Vangelo secondo Luca, XIII, 30), “Ed ecco, vi sono fra gli ultimi alcuni che saranno primi e vi sono fra i primi alcuni che saranno ultimi”, riassumibile nel detto “Gli ultimi saranno i primi”.
Magra consolazione, e lo sa bene il due. Divenuto un tale emblema d‘inutilità da aver generato un altro detto, preso in prestito dalla briscola: “Vali come il due di coppe quando regna denari (o bastoni)”. E se il due è quello di picche, che conta meno di tutte le altre carte (francesi), dire a qualcuno “vali come il due di picche” è rinfacciargli di essere “uno zero assoluto”. Una bella soddisfazione, in verità, il due se l’era già presa a tressette, arrivando a occupare un posto di tutto rispetto all’interno di un terzetto. Anche lì, in fin dei conti, fa però da terzo incomodo, stretto com’è fra un tre da cui è battuto e un asso che batte, d’accordo, ma non nel punteggio. La vera svolta arriva per il derelitto con la canasta e il burraco, che lo sollevano al rango di “matta”.
Il lessico: un po’ deformato, un po’ formato famiglia
Imparentato con la pinnacola, oltreché con la canasta, il burraco (o buracco) richiede due mezzi di carte francesi, completi di jolly, e si gioca di norma in quattro, due contro due; in alternativa si può tuttavia giocare in due, oppure in tre (tutti contro tutti o, da un certo momento in poi, due contro uno). Il mazzo dal quale si pesca, posto al centro del tavolo di gioco, è il tallone. I due mazzetti di 11 carte (se si gioca in quattro) alloggiati su un lato del tavolo, e preparati a ogni mano da un giocatore (li forma a partire dal fondo della parte superiore del mazzo, da lui stesso tagliato), sono chiamati anche pozzetti; i giocatori possono attingervi dopo aver terminato le 11 carte in loro possesso. I due, che fungono da matte insieme ai quattro jolly, prendono il nome di pinelle (la pinella o pinnacolo, o ancora pinnacolone, è anche il nome di un altro gioco della medesima famiglia).
Ci si aggiudica una mano del gioco, se la partita è in quattro, quando l’uno o l’altro dei componenti la coppia ha calato tutte le sue carte, comprese le 11 pescate da un pozzetto (è dunque andato a mazzetto o, per l’appunto, a pozzetto), ed è riuscito a metterne giù almeno una volta 7 o più di seguito, fra sequenze (carte d’identico seme e di valori contigui) o combinazioni (carte di diverso seme, ma d’identico valore), realizzando così un burraco: pulito o puro, se non ha fatto uso di matte; sporco o impuro, se ne ha utilizzata una. Le sequenze e le combinazioni messe giù da ogni coppia di giocatori occupano un’area dedicata del tavolo, a sua volta identificata da un nome specifico: vetrina.
Una storia ancora da “setacciare”
Il burraco, di provenienza sudamericana, prenderebbe il nome da una voce portoghese il cui significato originario è ‘setaccio’, ma l’ipotesi esige cautela. Il suo luogo di nascita sarebbe – altro condizionale d’obbligo – l’Uruguay, come per la canasta; lì avrebbe fatto i suoi primi passi, intorno alla metà degli anni Quaranta del ‘900. In Italia, dopo essersi affacciato nel Meridione, il burraco sarebbe esploso negli anni Novanta, all’indomani della nascita (1997) della Federazione Italiana Burraco (Fibur).
Nel 1999 un volumetto dal titolo rebolante (Burraco. The “Canasta” of the Third Millennium, Mesagne [BR]) ne avrebbe decretato il definitivo successo. Era firmato da uno dei più grandi esperti in materia, Giorgio Vitale, che l’aveva conosciuto alla fine degli anni Ottanta. Allora Vitale, che faceva l’arbitro nazionale di bridge, scoprì durante un arbitraggio al circolo di Bari che “in quello stesso circolo vi erano già 400 giocatori impegnati in un altro tipo di gioco: si trattava del Burraco, […] che stava facendo a Bari numerosi proseliti tra i giocatori di Bridge. La città di Bari, infatti, può essere un po’ considerata la culla italiana del Burraco. A quel tempo nei circoli come quelli del capoluogo pugliese si giocava già volentieri a questo gioco […], ma con molta meno consapevolezza e senza “veri” arbitri. Le partite avevano per lo più luogo tra le mura domestiche e non esistevano ancora i tornei”.
Massimo Arcangeli e Sandro Mariani