Requisitoria al processo in rito abbreviato in corso a Milano. Per l'accusa, l'immigrato ghanese era parzialmente capace di intendere e di volere quando, l'11 maggio 2013, uccise tre passanti a Niguarda. La difesa: "Totalmente incapace". Udienza rinviata per consentire le traduzioni
Vent’ anni di reclusione per Adam Kabobo, l’uomo che l’11 maggio dell’anno scorso a Milano ha ucciso a picconate tre passanti. E’ la richiesta del pm Isidoro Palma nel processo con rito abbreviato (che implica la riduzione della pena di un terzo) in corso nel capoluogo lombardo. Il pm ha chiesto il riconoscimento della seminfermità mentale e anche la condanna a sei anni da passare in una casa di cura dopo l’espiazione della pena. Il processo è stato poi aggiornato al 31 marzo per tradurre all’imputato le memorie scritte dei legali di parte civile e della difesa rappresentata dagli avvocati Benedetto Ciccarone e Francesca Colasuonno.
Nella requisitoria svolta a porte chiuse davanti al gup Manuela Scudieri, a quanto è emerso il pm si è richiamato principalmente alla perizia depositata lo scorso ottobre, firmata dallo psichiatra Ambrogio Pennati e dalla criminologa Isabella Merzagora, che aveva riconosciuto la seminfermità mentale, ma aveva anche sottolineato che la capacità di intendere del ghanese non era “totalmente assente” e quella di volere era “sufficientemente conservata”.
Il pm ha indicato in particolare tre elementi come moventi delle atroci aggressioni, perpetrate nel quartiere periferico di Niguarda, costate la vita a Daniele Carella di 21 anni, Alessandro Carolè di 40 ed Ermanno Masini di 64: il rancore verso la società da parte di Kabobo, che nei colloqui con lo psichiatra parlava anche di un odio verso i “bianchi” dettato dalle voci che avrebbe sentito; una finalità depredatoria che si è manifestata nel rubare i cellulari alle vittime; l’esigenza da parte di Kabobo “di attirare su di sé l’attenzione” attraverso quegli omicidi, proprio perché non si sentiva accettato dalla società. Inoltre, secondo il pm, malgrado Kabobo soffra di una forma di schizofrenia, avrebbe agito con lucidità perché ad esempio quando uno dei passanti che aveva cercato di aggredire si è riparato all’interno di un portone, il ghanese se ne è andato cercando altri obiettivi per le sue aggressioni. Altri tre passanti, infatti, quel giorno erano riusciti a salvarsi dalla sua follia.
”E’ una richiesta di condanna che ci aspettavamo, ma nella prossima udienza dovremo discutere noi e poi spetterà al giudice decidere”, hanno commentato i legali di Kabobo con i cronisti. All’imputato, hanno aggiunto, non è stata data nemmeno la possibilità di “comprendere quanto avviene in udienza e quello che ha detto il pm”, perché oggi in aula “c’era un nuovo perito traduttore che però non riusciva bene a comprendere l’italiano”. Tanto che il gup ha dovuto aggiornare il processo al 31 marzo per il deposito di memorie scritte delle parti da tradurre. Per la difesa, inoltre, Kabobo era totalmente incapace di intendere e di volere (e non solo parzialmente, come da richiesta del pm) al momento delle aggressioni, una tesi che porteranno avanti nelle loro conclusioni nella prossima udienza. Inoltre, resta “aperta la partita in Cassazione” per chiedere che Kabobo vada in un ospedale psichiatrico giudiziario per una “terapia riabilitativa” durante la custodia cautelare.
Nelle scorse settimane, però, il tribunale del Riesame ha respinto la richista di trasferimento di Kabobo in un opg. La pena richista di 20 anni, ha detto ai cronisti Andrea Masini, figlio di una delle vittime, “è insufficiente” perché “uno che ha ammazzato tre persone e ha tentato di ucciderne altre tre deve finire i suoi giorni in carcere”. Secondo Masini, inoltre, il vero “problema è l’immigrazione, e lo Stato non fa nulla e non è in grado di gestirlo”. Il segretario della Lega nord Matteo Salvini fa sapere che Kabobo “deve marcire ingalera e non deve più vedere la luce del sole da uomo libero” (ma il rito abbreviato prevede come pena massima 30 anni di carcere, che sostituiscono l’ergastolo, ndr), e che debba anche scontare la pena “preferibilmente nel suo paese, così almeno non lo manteniamo”.