Era il poliziotto che combatteva la criminalità organizzata nel litorale laziale. Aveva sequestrato un tesoro ai clan, guadagnando numerosi encomi. Poi è caduto in disgrazia, fino a ricevere una sanzione disciplinare poi annullata dal Tar. Ma ora l'investigatore ha abbandonato la divisa. La denuncia dell'Anip-Italia sicura Regionale per il Lazio
Alle forze dell’ordine, che combattono il crimine senza più mezzi né risorse, rimangono gli uomini, ma se poi neanche questi vengono messi in condizione di lavorare, allora tanto vale andare tutti a casa”. Parola di Filippo Bertolami, vice questore e segretario regionale per il Lazio del sindacato di polizia Anip-Italia Sicura, che denuncia “uno strano caso” avvenuto all’interno della Questura di Latina: “Una storia tutta da chiarire perché sembra un vero e proprio caso di mobbing”.
La vittima è uno di quegli sbirri che da soli portano avanti il lavoro di un intero ufficio: il sostituto commissario per oltre quattro anni si è occupato, praticamente da solo, delle cosiddette misure di prevenzione, e cioè i sequestri e le confische di capitali, beni mobili e immobili di presunti esponenti delle organizzazioni criminali che infestano il basso Lazio, territorio ad alta densità mafiosa. A parlare sono i risultati: 800 milioni di euro sequestrati e una carriera impreziosita da premi ed encomi vari sul suo operato. Ma non è bastato. Prima l’isolamento, poi la sanzione disciplinare e infine il trasferimento in un altro ufficio. “Una tecnica che ha funzionato – prosegue il sindacalista – tant’è che Carlo (nome di fantasia, ndr) alla fine è stato costretto a lasciare la Polizia di Stato”.
Secondo il sindacalista, “l’agente passa dalle stelle alle stalle con il cambio della guardia ai vertici della Questura di Latina”. Così, nonostante i sequestri disposti dal poliziotto trovino sempre conferma nei pronunciamenti della Corte di Cassazione, dal 2011 per lui le cose cominciano a mettersi male. Nonostante il suo stato di servizio, il nuovo questore non sembra stimare il suo collaboratore, come mette nero su bianco nella sanzione disciplinare che gli infligge nel 2012: “Il sostituto commissario dimostra un contegno scorretto verso un superiore (il questore) nonché abituale negligenza nell’apprendimento delle norme e delle nozioni che concorrono alla formazione professionale”.
Ma Carlo non ci sta e decide di fare ricorso; il Tar, seppure per un vizio di forma, gli dà ragione. Sì, perché secondo il tribunale amministrativo, chi “irroga una sanzione disciplinare non può essere anche quello direttamente leso dal comportamento del soggetto”. Una situazione, secondo le toghe, che non fornisce le sufficienti garanzie sulla “terzietà e obiettività nel comportamento dell’amministrazione”.
Una vittoria sul piano formale che però non basta a rasserenare un clima oramai avvelenato. Poco importa che solo qualche mese prima il dirigente della Divisione anticrimine abbia segnalato il poliziotto proprio al questore “per il suo lodevole comportamento nell’espletamento delle attività di istituto”. La nota è un encomio per il lavoro del 2011 portato avanti in solitaria o al massimo con l’aiuto di un assistente: “Ha incessantemente monitorato personaggi di interesse che gravitano nella criminalità presenti in questa provincia, analizzando le loro consistenze patrimoniali, i loro traffici, le movimentazioni finanziarie e quant’altro è stato necessario per dimostrare alle autorità competenti le illecite attività per ottenere l’applicazione di provvedimenti idonei ad infrenare la delinquenza e realizzare così una concreta ed incisiva azione di deterrenza alla criminalità nel Sud pontino”.
Prima lodato e apprezzato , poi, solo cinque mesi dopo, protagonista di un comportamento così inadeguato da meritarsi una sanzione. “A leggere le carte si fa persino fatica a pensare che si stia parlando della stessa persona – chiosa Bertolami – tant’è che come sindacato vogliamo vederci chiaro e chiediamo quindi al Capo della Polizia di mettere a confronto i due alti dirigenti per comprendere come sia stata possibile una valutazione diametralmente opposta sullo stesso collega. Chiediamo altresì al Procuratore capo di Latina di indagare a fondo sui dettagliati esposti presentati dallo stesso”.
Per il sindacalista, questa vicenda ricorda molto da vicino un’altra storia successa una decina d’anni fa sempre sul Litorale, ma qualche chilometro più a nord, ad Ostia, quando nel 2003 una squadra di poliziotti fa luce sulla cupola mafiosa dedita allo spaccio internazionale che reinvestiva i proventi nelle attività commerciali sul territorio. Per uno strano caso del destino l‘indagine viene insabbiata e i protagonisti, un pool composto dai membri scelti dalla Squadra mobile di Roma e dalla Polaria di Fiumicino, screditati.
Peccato che nell’estate del 2013, la maxi operazione Nuova Alba abbia confermato molte delle piste d’indagine contenute nell’informativa vergata dai poliziotti dieci anni prima: nomi, cognomi, episodi e società di copertura. Storia che si è ripetuta solo pochi giorni fa, quando l’inchiesta Tramonto, condotta dai finanzieri del Gico, scoperchia il sistema imprenditoriale, in apparenza pulito, messo in piedi dalle cosche di Ostia.
“Anche in quel caso i guai per gli investigatori iniziarono con il passaggio di testimone ai vertici della Squadra mobile della Questura di Roma”, racconta Bertolami ricordando che ai tempi i poliziotti sporsero denuncia, ma senza successo. L’auspicio dell’Anip – Italia Sicura è di non dover leggere anche oggi per le vicende di Latina delle conclusioni come quelle. “In ballo – conclude il dirigente sindacale – c’è la credibilità delle istituzioni, la sicurezza dei colleghi che lavorano sul territorio, ma soprattutto la fiducia di quei cittadini che credono ancora nella giustizia”.
di Lorenzo Galeazzi e Luca Teolato
Dal Fatto quotidiano del lunedì del 10-03-2014