Il protagonista di mille misteri si trovava a Enna nel dicembre del 1991, proprio mentre nella setssa città i boss di Cosa nostra si riunivano per pianificare le stragi. Il suo nome collegato alla vicenda Gioè e agli albori della Falange armata
È riemerso dal passato come uno dei tanti pezzi di un puzzle ancora tutto da comporre, collegando l’eversione nera alla strategia stragista di Cosa nostra che mise a ferro e fuoco il Paese tra il 1992 e il 1993. Tra le nuove prove raccolte dai pm che indagano sulla trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, c’è una ricevuta rilasciata da un hotel di Enna, datata 6 dicembre 1991 e intestata a uno dei personaggi più controversi che fanno capolino sullo sfondo del patto segreto tra la piovra e le istituzioni. È solo un pezzo di carta, ma apre spiragli nerissimi e sconosciuti. Perché quella ricevuta certifica la presenza di Paolo Bellini a Enna, in quella fredda notte d’inverno, pochi mesi prima che le stragi al tritolo cambiassero per sempre la storia d’Italia.
Una presenza che gli investigatori definiscono inquietante e sulla quale l’ex esponente di Avanguardia Nazionale è chiamato a rispondere in aula, dato che da stamattina depone come teste del processo sulla trattativa, in trasferta all’aula bunker del carcere romano di Rebibbia dove nei prossimi giorni sarà ascoltato anche il pentito Gaspare Spatuzza. Bellini è già stato interrogato dai pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, ma si è limitato a spiegare che all’epoca si trovava in Sicilia per una semplice questione d’affari: doveva recuperare alcuni crediti a Catania. Giustificazione che non ha convinto gli inquirenti: perché Bellini decide di pernottare ad Enna, a novanta chilometri dalla città etnea?
Un dubbio lecito, dato che è proprio negli ultimi mesi del 1991 che Cosa Nostra decide di mettere a punto la strategia di guerra allo Stato. E lo fa in una serie di riunioni che hanno luogo proprio ad Enna nelle ultime settimane del 1991. La sentenza della Cassazione sul maxi processo è alle porte, Totò Riina sa che le coperture politiche del passato sono saltate, sa che la Piovra è giunta al giro di boa: decide dunque di convocare i principali capimafia in un casale nei pressi di Enna, dove dopo una serie di incontri viene messo a punto il piano stragi. “Ci dobbiamo pulire i piedi” dice il capo dei capi ai suoi. “La riunione è stata l’atto finale. Erano lì da circa tre mesi, nella provincia di Enna. Avevano fatto la nuova strategia e avevano deciso i nuovi agganci politici, perché si stanno spogliando anche di quelli vecchi” racconta il pentito Leonardo Messina già il 4 dicembre del 1992, davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia. “Cosa nostra – continua Messina – sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, di diventare padrona di un’ala dell’Italia, uno Stato loro, nostro. In tutto questo Cosa nostra non è sola, ma è aiutata dalla massoneria. Ci sono forze nuove, si stanno rivolgendo. Sono formazioni nuove. Non tradizionali. Non vengono dalla Sicilia”.
Quali sono queste forze? E da dove vengono? E cosa ci fa Bellini a Enna, proprio nello stesso periodo in cui i boss sono riuniti in assise permanente per mettere in campo il piano che a suon di bombe farà tremare l’Italia per un biennio? Un passato in Avanguardia Nazionale, condito da diversi arresti mancati che gli hanno fatto conquistare sul campo il soprannome di Primula Nera, quella di Bellini è una storia da film: esperto di opere d’arte, fuggito in Brasile, noto per diversi anni come Roberto Da Silva, nel 1999 finisce in manette e decide di collaborare con la magistratura, confessando una decina di omicidi, tra cui quello dell’esponente di Lotta Continua Alceste Campanile.
Bellini racconta anche di aver conosciuto Nino Gioè e di aver intrattenuto con lui una sorta di trattativa parallela: i mafiosi avrebbero fatto ritrovare alcune opere d’arte rubate, e in cambio avrebbero ottenuto l’alleggerimento del carcere duro. Ipotesi mai andata in porto, ma una delle tante piste dietro alle stragi di Firenze, Roma e Milano, conduce proprio alla Primula Nera, che sarebbe stato l’ispiratore degli attentati mafiosi al patrimonio artistico italiano. “Supponendo che il signor Bellini fosse un infiltrato” scrive Gioè nell’ultimo appunto trovato in carcere, prima di morire in uno strano caso di suicidio che non è mai stato chiarito del tutto. In quello stesso appunto il boss di Altofonte fa cenno a Domenico Papalia, lo ‘ndranghetista che il 27 ottobre del 1990 ordina l’assassino dell’educatore carcerario Umberto Mormile: dettaglio importante, dato che quel delitto segna la nascita della Falange Armata, che rivendica prontamente l’omicidio.
Solo che qualche mese più tardi l’oscura sigla compare in Sicilia, dove i boss vengono prontamente istruiti sul come rivendicare le stragi. “Per quanto riguarda gli obiettivi da colpire si trattava di azioni di tipo terroristico anche tradizionalmente estranee al modo di operare e alle finalità di Cosa Nostra. Queste azioni secondo una prassi che erano già in atto da tempo dovevano essere rivendicate con la sigla Falange Armata”, è il racconto del pentito Maurizio Avola. Chi dice ai picciotti che bisognava utilizzare quella sigla? E l’ordine viene dato proprio durante le riunioni di Enna? Interrogativi che al momento non hanno alcuna risposta. È un fatto però che Paolo Bellini si materializza a Enna proprio in quel periodo: una presenza esterna a Cosa nostra, a cavallo tra l’eversione nera e i servizi, presente nel cuore della Sicilia proprio durante quegli incontri preparatori che tingeranno a lutto la storia d’Italia.