Nel 2013 il gruppo Unicredit ha perso oltre 26mila euro al minuto. Se si preferisce un milione e 600mila euro ogni ora. Il risultato di fine anno è una perdita rosso fuoco da 14 miliardi di euro. A pagarne le conseguenze saranno innanzitutto i dipendenti del gruppo che verranno ridotti di 8.500 unità, per lo più tra le filiali italiane. Ad affossare i conti è stato fondamentalmente il quarto trimestre, quello in cui solitamente si fanno le pulizie dei bilanci. Qui si concentrano tutte le perdite che sono frutto di drastiche svalutazioni (9,2 miliardi) sul cosiddetto goodwill (quello che in italiano si chiama avviamento), e di nuovi massicci accantonamenti (7,2 miliardi) per far fronte al continuo lievitare dei crediti dubbi.
Il già pessimo bilancio avrebbe potuto essere persino peggiore se Unicredit non avesse beneficiato della rivalutazione della sua quota del 22% in Banca d’Italia che ha avuto un impatto sui conti da 1,4 miliardi di euro. Gli interventi sul bilancio non erano stati previsti da nessun analista, quanto meno non in questa misura. Questo indica che probabilmente qualche conto o stima della banca aveva peccato di ottimismo nei trimestri precedenti. Stando agli ultimi dati i crediti deteriorati del gruppo ammontavano a quasi 61 miliardi di euro su un valore complessivo di prestiti alla clientela di circa 290 miliardi. In pratica ogni 5 euro prestati uno risulta a rischio di mancato rimborso. Con i nuovi interventi annunciati oggi il tasso di copertura (ossia quanto ho già messo a bilancio delle possibili perdite) sale al 51%, un livello elevato anche nel confronto europeo.
In generale il tasso di copertura rimane sempre sotto al 100% perché ci sono sempre beni posti a garanzia di un prestito su cui la banca può almeno parzialmente rifarsi (come l’abitazione nel caso del mutuo). La maxi pulizia di bilancio permette a Unicredit di affrontare con meno patemi d’animo la revisione dei bilanci e gli stress test disposti dalla Banca centrale europea e dall’Autorità bancaria europea. Qualche preoccupazione in vista degli esami europei era legata in particolare al ‘Common Equity Tier 1’, un indicatore di solidità patrimoniale particolarmente rigoroso che ora sale al 9,36% avvicinandosi ai valori di Intesa Sanpaolo (10,6%). Non è un caso che fino ad ora Unicredit fosse la grande banca europea con i credit default swap più cari. Si tratta di prodotti finanziari che permettono di assicurarsi contro il rischio di un fallimento, più il rischio sale più la polizza è costosa. I cds su Unicredit venivano scambiati a 139 contro 130 della spagnola Santander, 106 della tedesca Commerzbank, 89 della francese Credit Agricole o 61 della statunitense Jp Morgan. Valori di per sé non elevati ma significativi del modo in cui i mercati guardano ai vari istituti di credito.
Tornando ai conti del gruppo i ricavi scendono del 4% a 23,9 miliardi di euro mentre i costi rimangono stabili a 14,8 miliardi. Il margine d’interesse (in pratica la differenza tra quanto fa pagare i soldi che presta e quanto paga lei stessa i soldi che le vengono prestati) si riduce del 6,4% a 12,9 miliardi (il calo è dovuto anche a un diverso metodo di conteggio tra i due esercizi). I guadagni da commissioni salgono invece dello 0,7% a 7,7 miliardi di euro. I restanti 3 miliardi provengono soprattutto dall’attività di compravendita di titoli. Con lo spread in costante calo i 45 miliardi di titoli di Stato italiani in portafoglio si sono evidentemente rivelati un buon investimento. Per acquistare una fetta di questi titoli sono stati probabilmente utilizzati parte dei 26 miliardi di euro presi a prestito dalla Bce nelle due operazioni Ltro. La restituzione di questi fondi su cui si pagano interessi irrisori procede ma a ritmo lento. A dicembre Unicredit aveva infatti ancora in cassa 21 miliardi ricevuti da Francoforte.
Contestualmente ai conti il gruppo guidato da Federico Ghizzoni ha presentato il nuovo piano industriale. Ha inoltre annunciato che distribuirà un dividendo in azioni da 10 centesimi e che non prevede nuovi aumenti di capitale (dal crack Lehman ad oggi la banca ha già chiesto ai suoi soci circa 14 miliardi di euro). Le risorse per rafforzarsi arriveranno eventualmente da emissioni obbligazionarie, dalla quotazione di una parte di Fineco (la banca on line controllata dal gruppo) e dalla vendita della divisione che gestisce i crediti. Il piatto forte, e più indigesto, del piano è il taglio di 8.500 posti da qui al 2018, 5.700 di questi in Italia. Già nel 2014 il gruppo dovrebbe tornare a guadagnare soldi: almeno 2 miliardi di euro secondo le previsioni. Tutti elementi che sono piaciuti al mercato facendo si che il titolo non risentisse in Borsa della gigantesca perdita ma finisse la seduta addirittura con un guadagno del 6%.