Una sfida a due, da queste parti, non si vedeva da un po’. Primo segno che anche qui qualcosa sta cambiando. Ma c’è altro. Per la prima volta in cinquant’anni l’Arci, la rete di circoli (sono oltre 4800 in tutta Italia per più di un milione di soci) che ha raccolto l’eredità delle case del popolo resistendo sul territorio come ultimo baluardo della sinistra popolare, sembra non parlare più la stessa lingua del partito. Che una volta volta si chiamava Pci, poi Pds, e oggi invece porta il simbolo del Pd. E c’è da scommettere che si discuterà anche di questo scollamento, sempre più ampio ed evidente, nel sedicesimo congresso nazionale dell’Arci, convocato dal 13 al 16 marzo a Bologna, nel cuore dell’Emilia che fu rossa.

Dopo centinaia di assemblee e congressi locali, Palazzo Re Enzo accoglierà 592 delegati provenienti da ogni parte del Paese. Si deciderà il successore di Paolo Beni, presidente dell’Arci per dieci anni (fu eletto nel 2004 dopo la morte improvvisa di Tom Benettolo) e oggi deputato Pd in quota Cuperlo. E se negli ultimi congressi la scelta della leadership è stata più simile a un plebiscito, oggi invece l’Arci si trova costretta ad affrontare un ballottaggio. I candidati sono un uomo e una donna. Filippo Miraglia, siciliano trapiantato in Romagna, 49 anni e nessuna tessera di partito in tasca, già responsabile immigrazione dell’Arci. E Francesca Chiavacci, 52 anni, un passato da deputata nel Pds e come consigliere comunale a Firenze, nota a Palazzo Vecchio per essere una delle più fiere oppositrici di Renzi. La sua candidatura è data da alcuni come favorita: godrebbe dell’appoggio di Emilia Romagna (con l’eccezione di Bologna) e della Toscana. Due regioni forti, che insieme rappresentano poco meno della metà dei delegati totali.

C’è da dire anche che, se vincesse, sarebbe confermata l’egemonia di Firenze, visto che anche l’uscente Paolo Beni è nato nel capoluogo toscano. “Rischio spaccatura? Di sicuro è una situazione inedita per noi, ma credo che nessuno voglia una frattura tra correnti”, dice Miraglia. “Del resto il fatto che finora c’è stato sempre un candidato unico è stato più un limite che un vantaggio. Perché ha ridotto la possibilità di fare emergere un dibattito trasparente tra le diverse posizioni. Non so se poi questo si cristallizzerà in divisioni interne, ma tenderei a escluderlo”. Prudente anche la sua avversaria: “Starà alla nostra trovare una sintesi”.

Immigrazione, diritti e partecipazione le tre parole d’ordine del primo. Diritti, buone pratiche culturali e buone pratiche civili le tre priorità della seconda. Leggendo i due documenti congressuali, di punti di contatto tra le due proposte se ne trovano parecchi. Dettaglio che fa pensare che la scelta della presidenza si giocherà più sulla differente visione dell’ associazione: orizzontale e vicina ai movimenti per Miraglia, più radicata nei circoli per Chiavacci. In mezzo un comune denominatore: la forte critica nei confronti degli ultimi governi. Compreso quello nato da poco. “Non ho la tessera di partito e non amo particolarmente i rottamatori”, scherza Miraglia. “Alla politica chiederei un maggiore risconoscimento dell’associazione: non vogliamo essere visti solo come l’ala critica della base, quella che fa perdere voti. E poi ci sono alcune questioni in cui si sta andando in una direzione completamente sbagliata: la riforma elettorale, ad esempio”.

Il tono cambia di poco nelle dichiarazioni di Chiavacci, che per il rottamatore di Firenze non ha mai nutrito particolare simpatia. “Quello che è successo con le quote rosa è gravissimo, perché ripropone l’idea che in nome della mediazione si rinuncia ai diritti. Cosa che non fa ben sperare in provvedimenti su altri temi, come lo Ius soli. Al presidente del Consiglio chiederei una maggiore considerazione dell’Arci, perché senza partecipazione il Paese non cambia. Ma, vedendo come si sta comportando con i sindacati, temo siano appelli a vuoto”. Insomma, il giudizio nei confronti del Pd e del nuovo premier non sono teneri. A dimostrazione che qualcosa si è rotto.

“L’Arci è autonoma ma non autistica”, rincara Chiavacci. “Noi poniamo al centro alcuni temi, se poi il Pd vuole seguirci siamo solo contenti”. Negli ultimi anni in effetti la sintonia tra il partitone e i circoli si è ridotta all’osso. Le campagne dell’Arci hanno portato avanti una politica più affine alle idee di Sel, che a quelle del Pd. Basti pensare alla vicinanza con il movimento No Global e con quello No Tav, ma anche all’attenzione per questioni come la tutela dei beni comuni (acqua pubblica in primis), il pacifismo e il taglio alle spese militari, e l’estensione dei diritti civili. Tutti terreni scivolosi per il Pd, che finora non è mai riuscito a trovare una posizione capace di mettere d’accordo tutte le sue anime interne. E non è un caso che nel documento unitario del congresso si stigmatizzi la politica “dell’uomo solo al comando”. Così come non è un caso che nei quattro giorni di congresso, della segreteria del Pd si vedrà solo Davide Faraone, responsabile Welfare. Mentre tra gli ospiti più attesi ci sono Nichi Vendola, Maurizio Landini e Don Ciotti.

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