Sembra che siano tutti d’accordo: semplificare, semplificare, basta col bicameralismo perfetto, basta con questa va-e-vieni delle leggi fra Montecitorio e palazzo Madama, Senato da cancellare o da trasformare al più in una seconda Camera di non eletti e non pagati. Non bastano più il maggioritario, i premi di maggioranza, la semplificazione del sistema partitico, il bipolarismo e nemmeno il bipartitismo/tripartitismo, la legiferazione per decreti, la velocizzazione dei tempi e delle procedure parlamentari… Renzi ne è certo o, più esattamente, determinato: non si voterà più per il Senato.
Ora, ammettiamo (e non concediamo) che ci si arrivi, che non ci si incarterà nei tempi brevi in un pasticcio politico, che non si darà vita nei tempi medi ad un pasticcio elettorale e che, alla fine della giostra, non ci si ritrovi in un enorme pasticcio istituzionale. Ammettiamo che, al di là delle intenzioni e delle illusioni, il “sistema”, già così farraginoso e opaco, non risulti ulteriormente complicato dalla sopravvivenza di un Senato senza elezioni di primo grado, senza potestà legislativa, senza funzioni decisionali sul bilancio dello Stato, e con compiti e attività non facilmente distinguibili e nettamente separabili da quelli della Camera dei Deputati, delle Regioni e del sistema delle autonomie locali. Ammettiamo che il Senato, come è stato scritto in un allarmato editoriale del Corriere della Sera, non sarà trasformato in “una sorta di Cnel di sindaci piuttosto che un Bundesrat alla tedesca”.
Ammettiamo che si farà renzianamente ciò che renzianamente si dice di voler fare, a tappe forzate, foglio excel alla mano. E poi? E dopo l’agognata realizzazione del monocameralismo e l’abbattimento del numero di parlamentari, che altro semplificare? Il vigente sistema bi-presidenziale? Occorrerà passare al semi-presidenzialismo? E perché no, visto che ci siamo, al presidenzialismo? E visto che sono state istituite le Città Metropolitane – e nella speranza che si aggreghino Comuni medi e piccoli – che facciamo? Confermiamo l’abolizione delle Province? E perché non invece (o anche) delle Regioni, che costituiscono, coram populo, il principale canale di sprechi e di scandali?
Una volta innestato un processo “rivoluzionario”, si sa, è difficile resistere alla tentazione di procedere o almeno di annunciare di voler procedere a tappe forzate. Ma si sa anche come finiscono, anche in un sistema politico-sociale complesso come il nostro, le “rivoluzioni”: nel loro opposto. Senza tirare in ballo l’esempio (e l’esemplare esito finale) del terrorismo “rivoluzionario” degli anni Settanta, basti pensare all’ormai ventennale esaltazione del sistema elettorale maggioritario e criminalizzazione di quello proporzionale.
Si disse: basta con la Prima Repubblica. Senza precisare a quale “Prima Repubblica” ci si riferisse: a quella anni 1940-’70 o a quella anni 1980-’90. E come se l’esito di un sistema politico-istituzionale fosse determinato esclusivamente o prevalentemente da un sistema elettorale (nel nostro caso, proporzionale) e non da un complesso concorso di fattori storici, sociali, economici, politici ecc. (nel nostro caso, prima fra tutti la legge di Yalta, con l’esclusione permanente di un grande partito e di un enorme elettorato dall’area di governo e quindi la mancanza di alternativa o anche solo di alternanza).
Si disse: dobbiamo passare dalla democrazia parolaia alla democrazia governante. Ci vuole più governabilità. Ora, visto che la questione della democrazia rappresentativa si basa su due capisaldi, la rappresentatività e la governabilità, ci si sarebbe aspettati che su questa ci si concentrasse: sfiducia costruttiva, rigido sistema di incompatibilità, attenuazione per esempio temporale del meccanismo sfiducia/decadenza, ecc.. E invece, nulla di tutto questo: si è cercato e purtroppo si è ottenuto di ridurre drasticamente il tasso di rappresentatività degli eletti (con il maggioritario, la forzata semplificazione partitica, l’abolizione delle preferenze, ecc.). E’ forse aumentata la governabilità? Al contrario, vediamo ogni giorno che fine che hanno fatto in Italia la politica e, in primis, la governabilità. A ulteriore conferma che non esiste rappresentatività senza governabilità e non esiste governabilità senza rappresentatività. Ci vuole il massimo possibile dell’una e il massimo possibile dell’altra. Difficile? Faticoso? Problematico? Certo. Ma è la democrazia, bellezza. E non c’è alternativa.
Senza farla lunga, a che serve abolire il Senato? Meno costi e meno tempo perso? Se fosse per questo, perché – per esempio – non si è pensato di dimezzare sia la Camera che il Senato attuali (con un risparmio molto più consistente che con l’abolizione del Senato, e molto ma molto più consistente che con la sua “trasformazione” in qualcos’altro). E ancora: perché, per esempio, non riservare al Senato le problematiche regionali – anziché inventarsi un problematicissimo secondo livello, nazionale, del mondo istituzionale locale – e alla Camera quelle generali e politiche? L’uno e l’altra potrebbero in esclusiva decisionale concludere l’iter delle leggi di rispettiva competenza, salvo un reciproco diritto di “richiamo” delle leggi ben delimitato in tempi e motivazioni.
Al di là degli esempi specifici, rimane il dato: se si volessero risparmiare risorse e tempo, ci sono altre vie rispetto a quella che porta o che dovrebbe portare o che non porterà mai all’abolizione secca di una Camera. Invece, a parte rivoluzionarie e rottamatorie ambizioni di immagine, si vuole solo semplificare, correre, annunciare e “fare”, come se la vita, la democrazia e il governo di un paese fossero cose semplici, da fare di corsa, senza pensare o confrontarsi, senza dialogo, senza cultura, senza l’attenta e appassionata aderenza ai bisogni concreti degli individui.
Del resto, capita in queste ore che i sostenitori dell'”abolizione” del Senato – e non solo essi – sperano che la legge elettorale appena approvata dalla Camera venga modificata e migliorata al Senato. E ci si ricorda improvvisamente che – molte, moltissime volte – enormi svarioni legislativi commessi da una Camera, con potenziali ricadute pratiche disastrose, sono stati provvidenzialmente corretti dall’altra. Sì, dal bicameralismo.
Ma il bicameralismo perfetto – si può obiettare – fa più danni di quanti vantaggi assicuri. Se fosse solo per questo, basta abolire la “perfezione” (apportatrice della gran parte dei danni) e riformare e conservarsi il bicameralismo, con le sue indubbie e sperimentate virtù.