Dopo aver imposto all’Europa e all’Italia (a suon di spread) inopportune politiche depressive, di fronte al loro evidente fallimento la Bce non si scusa, non riconsidera i suoi modelli, non si chiede perché le sue previsioni sono ovunque fallite. Insiste. Accusa. L’Italia, dice, manca gli obiettivi di deficit e non ha neppure messo su una traiettoria discendente il suo debito pubblico. La Bce, come tutti, misura il deficit e il debito in rapporto al Pil: quindi potrebbe dire ugualmente che l’Italia ha mancato i suoi obiettivi di Pil in rapporto a deficit e al debito: ma se ne guarda bene.

Gli economisti keynesiani avevano previsto che le politiche adottate negli ultimi anni avrebbero prodotto questi risultati. La Bce invece, anno dopo anno, ha previsto che le politiche adottate – si badi bene: non quelle ‘ideali’ consigliate, bensì quelle approssimate effettivamente adottate – avrebbero portato a una forte riduzione di deficit e debito in rapporto al Pil. Quando non è successo, il Fmi ha riconsiderato i suoi modelli, ha capito quali erano gli errori, si è scusato, ha cambiato le sue raccomandazioni. Non la Bce.

L’errore fondamentale della Bce e di tutti quelli che sostengono la sua impostazione è di utilizzare modelli ‘di piena occupazione’ o neoclassici quando la piena occupazione non c’è. E di derivare previsioni e raccomandazioni di politica economica come se il mondo fosse uguale a quello ipotizzato da quei modelli. Di qui la sottovalutazione della forza delle politiche di bilancio. In piena occupazione, infatti, una manovra espansiva (un aumento del deficit, per esempio tramite un taglio dell’Irpef o un aumento degli investimenti in infrastrutture) produce poco aumento del Pil, perché la stessa espansione sottrae lavoratori occupati ad altri settori; e quindi si verifica poco aumento di base imponibile; il ‘buco’ nei conti non si richiude da solo, il debito e il deficit aumentano in rapporto al Pil. Così pure una manovra restrittiva (austerità) deprime poco il prodotto interno lordo, perché i lavoratori licenziati vengono subito richiesti in altri settori: il rapporto fra deficit (debito) e Pil cala, l’austerità è efficace.

In regime di disoccupazione di massa, invece, un aumento di spesa pubblica o privata (poco importa) porta ad utilizzare disoccupati che erano improduttivi, senza sottrarre nulla ad altri settori. Il lavoro e il valore aggiunto allargano la base imponibile: il deficit si richiude da solo dopo pochi mesi, come abbiamo visto accadere quasi ‘miracolosamente’ negli Usa. Non solo: anche se il deficit non si richiudesse del tutto, l’aumento del Pil ridurrebbe comunque il rapporto debito/pil, via denominatore. E non ci sono rischi di inflazione: il mercato del lavoro e quello dei beni e servizi sono troppo depressi per consentirla.

La Bce oggi contribuisce poderosamente ad impedire che il rapporto debito/Pil dell’Italia scenda: il divario fra l’inflazione europea reale (0,8%) e l’obiettivo statutario (2%) deprime il Pil nominale, e spinge ogni anno verso l’alto il rapporto di almeno 1,5% del Pil. Sarebbe ora che il governo italiano richiamasse la Bce alle sue responsabilità.

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