Cultura

Madri che uccidono: la messinscena di Medea e la sospensione del giudizio

Di madri che uccidono i figli si parlava meno, quando ho visto Maternity Blues (From Medea) messo in scena da Elena Arvigo al Teatro Belli di Roma da un testo di Grazia Verasani. Oggi che il tema è tremendamente tornato alla ribalta, il nome di Medea è riecheggiato varie volte nelle pagine dei giornali. Il mito inquieta l’immaginario collettivo, sconvolto da un delitto che non trova spiegazione razionale. Scrivere di questo spettacolo ha un senso diverso rispetto a qualche giorno fa, perché è inevitabile che il pensiero vada alla strage di Lecco. E la sospensione del giudizio è l’unica risposta di fronte ad un orrore che il pensiero occidentale ha metabolizzato attraverso la rielaborazione mitologica, fissandolo nella maga della Colchide che uccide i figli per vendicarsi del tradimento del marito Giasone.

All’origine dello spettacolo c’è un atteggiamento analogo: «né assoluzione né condanna», ma il tentativo di riflettere sul dramma, come spiega la regista. Sulla scena le madri sono quattro: Eloisa (Elena Arvigo), Vincenza (Amanda Sandrelli), Rina (Xhilda Lapardhaja) e Marga (Elodie Treccani) convivono con un dolore tutto interiore, che emerge faticosamente nella quotidianità della loro esistenza di carcerate. Le donne condividono una cella in un ospedale psichiatrico, dove sono rinchiuse per aver commesso un infanticidio. Un crimine indicibile, che viene espiato lentamente, senza possibilità di elaborazione. È nello spazio claustrofobico della cella che le loro storie si rivelano come tragedie, vive al punto da diventare ossessioni o quasi rimosse, perché insopportabili. Lo spettatore si trova dentro la scena, a spiare la monotona quotidianità e ad osservare  le protagoniste in una impensabile dimensione di vita normale. Nelle note di regia del resto, Elena Arvigo si chiede «quanto è rassicurante creare mostri per non fermarsi a pensare» e cita il Brecht poeta dell’Infanticida Maria Farrar: «fu grave il suo peccato, ma grande la sua pena».

La messinscena punta sul contrasto tra l’apparente normalità e il tormento che si agita dentro le protagoniste. Preparano addobbi natalizi e si preoccupano dell’ordine, ma non possono dimenticare il gesto tragico che vedono continuamente riflesso nei volti delle altre. Lo spettacolo procede su questa duplicità, con momenti di grande tensione drammatica che culminano in un finale ad alto impatto emotivo. Merito anche delle attrici, cui la regista ha affidato il compito di collaborare alla scrittura scenica con l’improvvisazione, dando così vita a personaggi di un certo spessore umano.

Particolarmente interessante è l’interpretazione di Elena Arvigo, che con Maternity Blues continua il percorso sulle ombre dell’animo femminile, iniziato con4:48 Psychosis di Sarah Kane. Un’indagine che qui arriva a sfiorare anche il tema della depressione post partum: argomento scomodo e sempre troppo poco dibattuto. Capita al 12% delle donne, dicono le statistiche. Ma in fondo, in una società che impone continuamente immagini patinate della maternità perfetta, ogni madre dentro di sé è convinta che la cosa non la riguardi.