Trovo intollerabile che il principio dell’obiezione di coscienza “sorpassi”, in alcuni casi, quello dei diritti. Ci sono medici che si rifiutano di praticare l’interruzione di gravidanza oppure farmacisti che se una cliente chiede loro la “pillola del giorno dopo”, gli stessi la invitano a rivolgersi altrove. Non condanno questi atteggiamenti in sé, perché previsti dalla legge, ma non posso tacere di fronte al fatto che rappresentino la maggior parte dei casi e che divenga sempre più difficile trovare chi di obiezioni non ne fa.
A Roma, Valentina, una giovane donna di 29 anni, scopre che il feto che porta in grembo soffre di una malattia genetica terribile e fortemente invalidante. Come prevede la legge dovrebbe accedere velocemente a un programma di interruzione di gravidanza. Invece, a partire dalla sua ginecologa, trova una serie di medici obiettori di coscienza che ritardano la pratica. All’ospedale Sandro Pertini, dove alla fine riesce a farsi ricoverare, tra dolori lancinanti, espelle il feto dopo una corsa in bagno.
È assurdo che il numero dei medici obiettori superi di gran lunga quello di chi applicherebbe i dettami della legge sull’aborto (la 194 del 1978) senza problemi. Non voglio costringere chi ha degli scrupoli ad agire contro coscienza, ma un paese civile dovrebbe avere una divisione alla pari tra i primi e quelli che ritengono più importante rispettare la volontà di una donna intenzionata ad interrompere una gravidanza.
Con le dovute proporzioni, segnalo un’altra situazione. Nelle farmacie, con particolare riferimento a quelle comunali, è aumentato il numero dei professionisti obiettori, che si rifiutano di dare la cosiddetta “pillola del giorno dopo”. A Milano, dove il servizio è stato ceduto dal Comune ad una società privata col pubblico che però mantiene una quota di proprietà, il fenomeno è dilagante. Io stessa ho provato a verificarlo e in due casi su tre, chi era dall’altra parte del bancone si è rifiutato di darmi l’agognato medicinale, dicendomi: “Si rivolga altrove. C’è un’altra farmacia girato l’angolo, forse lì sarà più fortunata”.
Ma non è possibile che risposte ad un mio diritto le possa ottenere solo per una questione di fortuna! Una ricerca condotta l’autunno scorso dal Ministero della Salute comunica che negli ospedali italiani è cresciuto in modo esponenziale il numero dei medici obiettori: sono aumentati del 17,3% in 30 anni.
Altri numeri ci dicono poi che in Italia gli aborti diminuiscono. Sono scesi del 5 per cento. Registriamo un tasso tra i più bassi, nei Paesi industrializzati: nel 2012 sono state poco meno di 106 mila le interruzioni volontarie di gravidanza, con una riduzione del 4,9% rispetto al 2011 e del 54,9% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto numero di casi, 235 mila circa. Questo conforta: le nostre donne hanno probabilmente avuto minor necessità di ricorrere a questo tipo di pratica. Abortire significa mettersi fortemente alla prova: segna emotivamente e certo non può essere derubricata come un’operazione banale e priva di conseguenze, se non altro sull’animo di chi la effettua.
Viceversa, una forte sperequazione tra medici obiettori e non-obiettori, a favore dei primi, introduce delle forti criticità. Vengo a fare un altro esempio pratico. Ospedale Niguarda, ovvero Policlinico di Milano; qui, nel reparto di ostetricia e ginecologia, dove di solito ci si deve rivolge per praticare un aborto, ci sono solo due medici non obiettori. Tutti gli altri si rifiuterebbero di consigliare a una paziente l’interruzione di gravidanza e nel caso proprio non riuscissero a far cambiare idea all’interessata, la inviterebbero a recarsi da qualcun altro.
Ma questo cosa comporta? Lunghe liste di attesa, che costringono chi ha necessità di abortire, ad aspettare per un turno che può non arrivare mai. Questo può avere naturalmente anche una conseguenza clinica sulla paziente, la storia di Valentina, la ragazza romana, sta lì a dimostrarlo! Interrompere una gravidanza pochi giorni dopo il concepimento è una cosa; farlo qualche settimana più in là, naturalmente, è tutt’altra. Non sono un medico ma so che – anche a cose fatte – le conseguenze sono differenti con un post-operatorio più lungo, difficoltoso e probabilmente doloroso.
Due soli medici non obiettori, al lavoro in una struttura ospedaliera come il Policlinico di Milano, che ogni giorno tratta decina di migliaia di pazienti, in che condizioni saranno mai costretti ad operare? È giusto, poi, che un medico abbia anche la possibilità di seguire il proprio paziente nei mesi successivi all’intervento, con visite di controllo per esempio. Riusciranno mai quei “due prodi”, da soli, a stare in contatto con le donne che hanno operato?
Quello che chiedo al Ministero della Salute è di non dare semplicemente dei numeri, ma interpretarli ed agire. Che gli aborti siano diminuiti è un bene – ripeto – ma che ci sia questa sproporzione tra medici obiettori e non, non è un bene e la cosa va corretta. Si coinvolgano le università, per proporre seminari sulla materia, che incentivino giovani studenti laici a seguire la via dell’imparzialità. Si organizzino corsi e convegni negli ospedali, che aggiornino sulle nuove pratiche chirurgiche relative all’aborto e si spingano le aziende ospedaliere ad assumere medici che nel curriculum abbiano scritto: “non obiettore”.
Solo in questo modo eviteremo che alle donne italiane sia negato un diritto acquisito da tempo e sancito dal legislatore.