È il momento della ricorrenza. Sappiamo bene che il dominio di Berlusconi aveva radici ben consolidate nella “Prima Repubblica” e guai giudiziari già avviati, ma la discesa in campo fu proprio nei primi mesi del ’94. Parlerei di ventennio con la lettera minuscola, per distinguerlo da quello ben più serio (nel bene e nel male) del secolo scorso, a riconferma del fatto che la storia si ripete sotto forma di farsa.

Erano gli anni di Mani Pulite, che godeva di grande popolarità tra tutti quelli che non ne potevano più delle malversazioni dei partiti. Berlusconi, con le sue tv, provò persino a cavalcare la protesta, su cui trovava rabbiosamente schierati i suoi alleati leghisti e fascisti. Ma solo in una prima fase, perché poi venne presto fuori, come più volte ha detto negli anni più recenti, che la sua funzione fu quella di salvare dal “golpe giudiziario” i reduci del pentapartito.

Infatti ancora oggi, dopo che i partiti di tutti gli orientamenti hanno cambiato decine di sigle e simboli, le categorie di democristiano, socialista, comunista, sopravvivono nella definizione di molti dei protagonisti della politica attuale: abbiamo un Presidente della Repubblica ex Pci, un Presidente del Consiglio ex Dc, un vice Ministro dell’Economia ex migliorista, craxiani ovunque. È una sorta di ibernazione che non ha pari al mondo: è come se la Francia fosse ancora presieduta da Mitterrand, nei paesi anglosassoni avessero ancora voce in capitolo Reagan e la Thatcher, in Germania Kohl. Tutti, vivi o morti, più o meno della stessa generazione di Napolitano.

La storia di questi vent’anni è di un centrodestra e un centrosinistra che si sono alternati al governo, confrontandosi in una campagna elettorale continua scandita dai tempi stretti di scioglimenti anticipati delle Camere e frequenti elezioni intermedie. Una contrapposizione che, a quanto ci si raccontava, era fin troppo accesa, con le diverse fazioni che si delegittimavano reciprocamente. Al contrario, da una lettura a posteriori emerge una sostanziale continuità nelle politiche adottate dai diversi governi.

In politica estera si è riconfermata l’assoluta fedeltà all’alleanza atlantica, con vari cedimenti alla subalternità. Come quando il governo D’Alema decise di bombardare Belgrado, aggirando la pronuncia del Parlamento peggio di Andreotti che ai tempi della prima guerra in Iraq aveva almeno inventato la missione di polizia internazionale.

Tutti i ministri dell’Istruzione hanno condotto, con qualche fuga in avanti ma senza alcuna inversione di rotta, un’opera di demolizione della scuola pubblica con tagli di fondi, di classi, di personale; col risultato di screditare progressivamente, anche attraverso un trattamento economico indecoroso, la funzione degli insegnanti, mortificati anche sul piano della considerazione sociale. Nello stesso tempo trovavano modo di elargire fondi e privilegi alle scuole cattoliche.

La politica economica è la grande assente di questi anni: nessuna misura seria è stata intrapresa per arginare la crisi che, sull’onda degli sconvolgimenti globali, ha portato l’Italia al sostanziale smantellamento del sistema produttivo. Tutti i governi si sono limitati a tenere i conti a posto con politiche di austerità fatte di tagli alla spesa pubblica e crescente pressione fiscale, con prevedibili effetti depressivi sulla domanda interna e sul Pil, con un crollo occupazionale senza precedenti e senza prospettive di riassorbimento.

La giustizia è stata amministrata in maniera schizofrenica, accentuando le diseguaglianze già ben presenti in campo economico e sociale. Forte coi deboli, debole coi forti, per sintetizzare. Una produzione normativa eccessiva, scomposta, incoerente, contraddittoria ha severamente compromessa la certezza del diritto: chi ha potuto permetterselo ha beneficiato dei tanti cavilli procedurali prodotti per aggiustare questo o quel processo; tutti noi altri abbiamo dovuto subire i guasti di un sistema impantanato, incapace di adempiere in maniera normale alla funzione di tutelare le vittime e condannare i colpevoli.

Nessun governo ha mai voluto affrontare temi cruciali come il conflitto di interessi, il pluralismo dell’informazione, l’assetto delle tv con riconsiderazione del ruolo di servizio pubblico della Rai e disciplina seria delle concessionarie commerciali. Senza parlare dei troppi privilegi della classe dirigente, politica e imprenditoriale.

Un sostanziale accordo su tali questioni legava tutti i protagonisti della politica, salvo qualche cane sciolto troppo debole per imporsi. Il governo Monti sanciva quest’unità d’intenti col pretesto dell’emergenza nazionale: i rapporti alla Boccia-De Girolamo finalmente alla luce del sole. C’è stato un momento, nei giorni in cui si doveva scegliere il Presidente della Repubblica, in cui anche i più ottusi, che per anni avevano voluto credere alla storia degli schieramenti contrapposti, hanno dovuto aprire gli occhi: quando Grillo disse che se il Pd avesse eletto Rodotà si sarebbe aperta un’autostrada per la formazione del governo, escludendo Berlusconi. Lì si scoperchiò l’accordo già siglato per le larghe intese, scoppiò la bagarre e si ricorse al Napolitano bis, quindi al governo Letta. Ma c’era ancora bisogno di accampare la situazione d’emergenza.

Con Renzi, il passo successivo di un vero e proprio governo politico, di legislatura, che unisce tutti: chi sta in maggioranza esplicitamente e chi indirettamente, attraverso abili strategie di alleanze presenti e future. Riprendendo le categorie che meglio si addicono alla sua formazione e storia politica, Napolitano fa da supremo mediatore tra ex Pci e ex Pentapartito. Sta fuori solo Grillo, impegnato in funambolici autogol.

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