Le imprese che non aumenteranno i salari, come più volte “suggerito” dal governo, verranno punite. Parola di Akira Amari, ministro dell’Economia del Giappone, la cui caricatura che lo raffigura come un boss mafioso ha subito campeggiato sul più diffuso dei tabloid locali, il Nikkan Gendai. Accanto al titolo “Governo peggio della yakuza”.
Da quando qualcuno ha ricordato al premier che al feretro dell’Abenomics mancava una quarta freccia, quella dell’aumento dei salari, il governo giapponese ha cominciato a recitare un vero e proprio mantra che prima invitava, poi suggeriva e infine, con l’improvvida uscita del ministro Amari, ordina alle imprese di “fare il proprio dovere”. Finalmente, si sarebbe portati a pensare: era ora che il governo, in assenza di sindacati degni di questo nome, imponesse alle imprese di pagare di più i loro dipendenti, provocando un aumento dei redditi e dunque dei consumi.
Ma non è tutto ora ciò che luccica, e dietro questa apparente “generosità” del governo può nascondersi il primo segnale di sostanziale fallimento dell’Abenomics. Intendiamoci, non occorre aver imparato a memoria le teorie keynesiane, alle quali l’Abenomics sostiene di ispirarsi, per convenire che senza aumento dei salari non c’è aumento dei consumi dunque aumento della domanda dunque aumento della produzione e infine dei profitti. Questo lo sanno bene le grandi multinazionali, che infatti hanno immediatamente accettato il “suggerimento” del governo. Dal prossimo marzo, senza nemmeno bisogno della ridicola e umiliante (per un paese che ha espresso nel recente passato una grande ed efficace tradizione sindacale) pantomima della shunto (la “vertenza di primavera”, periodo in cui in Giappone si rinnovano i contratti) i lavoratori della Nissan, della Toyota, della Sony e delle (poche) altre grandi aziende giapponesi riceveranno l’agognato aumento.
Poca roba: dai 20 ai 30 euro al mese in media, un onere minuscolo per aziende che hanno ottenuto riduzioni fiscali da capogiro. Aziende che denunciano enormi profitti ma che rappresentano sempre di meno l’economia reale del paese. Meno del 10 per cento degli occupati giapponesi lavora per queste aziende, che a loro volta rappresentano appena lo 0,3 per cento delle imprese. Una situazione molto simile a quella italiana e aggravata che per le piccole e medie aziende giapponesi, da anni in crisi di commesse e di cashflow, l’Abenomics non è stata generosa come con le grandi aziende.
Il risultato è che sotto il peso della recessione e dei carichi fiscali, migliaia di piccole e medie aziende sono state costrette a chiudere. Chiedere a quelle che a fatica stanno sopravvivendo di aumentare i salari non è certo uno stimolo, e un incentivo al suicidio. Soluzione alla quale ricorrono sempre più piccoli imprenditori, grazie al fatto che il Giappone è forse l’unico Paese al mondo dove le compagnie di assicurazione liquidano le polizze vita anche in caso di suicidio. Il numero è costante da alcuni anni, circa 34mila l’anno, una novantina al giorno, uno ogni 20 minuti: ma mentre diminuisce il numero degli anziani che si tolgono la vita, è in forte aumento la fascia compresa tra i 50 e 60 anni, l’età nella quale è difficile, se non impossibile, ripartire. E allora il suicidio è spesso l’unico modo per un imprenditore o un commerciante fallito e sommerso dai debiti, o per un manager rimasto senza lavoro, di garantire alla famiglia un’esistenza agiata. Le polizze infatti sono molto generose e consentono di conservare lo stesso livello di vita, evitando alle mogli e ai figli, ad esempio, di dover cambiare casa, scuola, contesto sociale.
La quarta freccia di Abe, insomma, rischia di essere avvelenata. Non solo rischia di essere scoccata contro la famosa ma sempre più malmessa “classe media”, ma rischia di avvelenare anche il tradizionalmente timido, ma che negli ultimi mesi, grazie al balzo della Borsa, aveva cominciato a muoversi, mondo dei piccoli azionisti. Ai quali si sa, poco importa delle politiche sociali e della redistribuzione della ricchezza. A loro importa che le aziende facciano profitti, aumentino la quotazione dei titoli e possibilmente (anche se in Giappone succede di raro) distribuiscano dividendi. E anche qui, dopo l’ubriacatura iniziale, la Borsa di Tokyo ha cominciato ad arretrare, perdendo buona parte di quello che aveva guadagnato l’anno scorso. Al punto che qualcuno parla già, anziché di circolo virtuoso, di circolo vizioso. E di Abecomics, al posto di Abenomics. Sì, perché aldilà della sua applicabilità ed eventuale efficacia, l’idea di “punire” i “padroni” che non aumentano i salari è, quanto meno, divertente. Chissà se a qualcuno, in Italia, non viene in mente di copiarla.