Daniele Borelli viene trovato cadavere il 5 dicembre 2011. Era indagato per collusione con le cosche. Un anno dopo la madre fa riesumare il corpo e scopre che cervello, cuore e stomaco sono spariti. Parte la denuncia che riscrive la storia di quella morte
A mamma Riccarda lo aveva confidato la sera del 4 dicembre 2011: “Io sono pulito, ma tu non conosci quella gente”. Si riferiva alla mafia e ai suoi interessi tanto potenti da uccidere. Quel mondo lo stava divorando al punto che i magistrati, poche settimane prima, lo avevano fermato con l’accusa di gestire i capitali dei clan attraverso società estere. All’alba del 5 dicembre 2011, il corpo del notaio svizzero Daniele Borelli, nato a Zagabria nel 1963, viene ritrovato senza vita nella sua casa di Lugano. Impiccato (leggi). La corda nera fissata alla trave del soffitto. Indossa tuta, felpa e una paio di crocks arancioni. I capelli sono bagnati, i pugni serrati. Il volto mostra diversi ematomi. Dalla bocca semiaperta si vede che manca qualche dente. Davanti ha una scaletta bianca girata dalla parte opposta del corpo. Difficile pensare che l’abbia utilizzata per impiccarsi. Ma per le autorità svizzera è suicidio. Questo il ragionamento: i sospetti di collusioni mafiose lo avevano reso ansioso. Borelli faceva uso di ansiolitici. In realtà si tratta di un generico dello Xanax prescritto in dosi normali per dimagrire. Il particolare, però, aiuta. E’ suicidio. Sul caso cala il silenzio. Fino all’8 novembre 2012, quando la madre di Borelli fa riesumare il cadavere. Il risultato è clamoroso. Il medico legale dell’università di Zagabria Josip Skavic rileva che dal corpo del professionista mancano quasi tutti gli organi. Non c’è più il cervello, il cuore, un rene e l’intero stomaco. Da qui la decisione di incaricare l’avvocato Xenia Peran di denunciare i due medici dell’azienda ospedaliera di Varese che hanno eseguito l’autopsia. L’accusa: aver esportato gli organi senza alcun consenso. Viene anche ipotizzata la manomissione di cadavere e la violazione del regolamento mortuario. Reati gravi che violano diverse leggi. A questo va aggiunto il falso in atto pubblico per non aver segnalato nel referto finale l’asportazione degli organi. Il documento, inviato il 16 gennaio scorso al Ministero pubblico di Lugano, al Consiglio di Stato, alle procure di Varese, Milano, Reggio Calabria, riscrive la storia di quella morte, riportando in primo piano l’ipotesi di un omicidio fatto passare per suicidio. Tanto che lo stesso legale mette nero su bianco una denuncia contro ignoti proprio per la morte di Borelli
TRUST PER SCHERMARE I SOLDI
I PROFESSIONISTI DELLE COSCHE
Torniamo allora alle ultime parole di Daniele Borelli. A quel mondo di violenza, relazioni, interessi e soldi sporchi. A partire dal 2010 su di lui indagano i magistrati di Milano e Reggio Calabria. Al centro gli interessi della ‘ndrangheta: da un lato la cosca Gallico di Palmi, dall’altro la famiglia Valle-Lampada che i magistrati ritengono essere la propaggine lombarda della potente famiglia Condello. A tenere insieme le inchieste ci sono l’avvocato calabrese con residenza comasca Vincenzo Minasi e il notaio Borelli. I due professionisti, ragionano i pm, lavorano assieme per costruire trust societari blindatissimi. Obiettivo: occultare il denaro dei clan. Milano, però, pur chiedendo informazioni alle autorità svizzere decide di tenere un basso profilo sulla figura di Borelli. Reggio Calabria, invece, esce allo scoperto iscrivendo il notaio nel decreto di fermo. Il legale svizzero è accusato di intestazione fittizia di beni aggravata dal fatto di aver agevolato la ‘ndrangheta. E’ lui, infatti, il titolare della Zenas con sede nel Delaware (Stati Uniti) che acquisterà da una testa di legno dei Gallico terreni per oltre 100mila euro. I magistrati sono convinti: Borelli sapeva con chi aveva a che fare. Il 30 novembre 2011 scattano gli arresti. Il professionista svizzero viene fermato. Casa e ufficio perquisiti. Poche ore dopo, mentre Minasi sarà portato in galera con l’accusa ben più grave di concorso esterno, lui rientra nel suo appartamento di Lugano in via Baroffio 4. Poi, il 5 dicembre, la morte. Il caso viene subito blindato dalla polizia federale. Nulla, se non il dato di cronaca, trapela sui giornali. Strano, visto che fin da subito la morte di Borelli viene catalogata come suicidio.
LA STRANA FRETTA DELL’AUTOPSIA
L’ACCUSA AI DUE MEDICI LEGALI
La fretta, infatti, è il primo dato che colpisce in questa storia. Borelli, stando alla stringatissima nota della polizia di Lugano, muore tra le 6 e le 9 di mattina. Alle 12 viene certificato il decesso. Alle 14 dello stesso giorno il corpo è già sul tavolo dell’obitorio per l’autopsia eseguita dalle dottoresse dell’ospedale di Varese che ricevono l’incarico dall’Istituto cantonale di patologia di Locarno. La procedura è insolita. La legge, infatti, impone che debbano passare almeno 24 ore. Come risulta del tutto anomalo il fatto che sul referto definitivo non vi sia il minimo accenno all’espianto, giustificabile solamente con la necessità di mantenere gli organi per ulteriori sviluppi investigativi. Che non ci sono mai stati. Un falso in atto pubblico, dunque. Questa la tesi del legale della famiglia Borelli.
Ci sono, invece, le relazioni pericolose con i colletti bianchi dei boss. Un’ombra pesante che, ragiona il legale nella sua denuncia, avrebbe dovuto indurre la polizia federale ad avere più dubbi che certezze. Non sarà così. Un anno dopo, la relazione della polizia di Lugano conta appena quattro pagine. Si riassumono i fatti e si allegano i verbali del fratellastro di Borelli e dell’amante dello stesso notaio. Entrambi puntellano la tesi del suicidio. La donna dirà di aver lasciato Daniele alle 6,30 del 5 dicembre per tornare a casa sua prima che i figli si svegliassero. La testimonianza toglie trenta minuti all’ora della morte mettendo in evidenza una volta di più l’approssimazione delle indagini. L’ipotesi del suicidio viene avvalorata dal fatto che la porta d’ingresso era chiusa dall’interno. Il dato appare debole visto che spesso i ladri sono più facilitati dall’inserimento della chiave nella serratura. Poi ci sono le testimonianze. Appena due. Perché non fu sentito il socio di studio di Borelli che ben conosceva le pratiche dell’ufficio e perché la polizia federale non convocò la segretaria del notaio che lo mise in contatto con Minasi procurandogli quei clienti calabresi?
QUELLE RELAZIONI PERICOLOSE: “AVANTI NOI
BORELLI PUO’ SCRIVERE UNA LETTERA ATOMICA”
Il punto di svolta in questo giallo sono i rapporti tra Minasi e Borelli. Tanto che rileggendo le carte delle due inchieste emergono elementi inediti. Ad esempio l’accordo tra Minasi e Rocco Gallico di sostituire lo stesso Borelli alla guida della Zenas. Il notaio, infatti, insiste per essere pagato. Spiega Minasi: “Mi ha telefonato varie volte, mi ha mandato delle mail, per questo ho detto avanti noi. Non voglio che scriva qualche lettera che poi diventa atomica”. Insomma, Borelli doveva uscire a tutti i costi dagli assetti societari. Secondo la ricostruzione dei magistrati era l’anello del debole. Un rischio per la ‘ndrangheta. Sapeva troppo? Ne sembra convinta la stessa procura di Milano che pochi mesi dopo l’intercettazione di Minasi, chiede alle autorità svizzere di approfondire la figura di Borelli. La richiesta è del 10 giugno 2010. Viene setacciato il cellulare. Fatti i tabulati a ritroso fino al 2009. Ci sono numeri, contatti, discorsi. Si conosce il contorno, ma non il contenuto. S’intuisce che Borelli, attraverso Minasi, è in affari con personaggi di mezza Europa. Assieme al legale calabrese addirittura trattava la compravendita di navi con la Russia facendo sponda su società inglesi. Oltre non si va. Ancora coperte da segreto restano le carte sequestrate nell’ufficio del notaio. Non si conoscono i suoi clienti e nemmeno i suoi flussi di denaro sui conti personali. Inoltre, secondo il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, il notaio di Lugano ha curato anche gli interessi illeciti della famiglia Lampada. Il sospetto è giusto. Lo conferma lo stesso Minasi interrogato dal pubblico ministero Paolo Storari.
I PAGAMENTI DELLA ‘NDRANGHETA
SUI CONTI DELLA MADRE DELLA SEGRETARIA
Il progetto è quello di costituire una società per l’acquisto di terreni frutto di vendite giudiziarie. Due dei soci sono in grado di pilotare queste vendite. Si tratta del giudice Giancarlo Giusti e di un architetto calabrese. Giulio Lampada e un medico di Reggio Calabria gli altri soci. Nasce così la Indres srl. Ma per schermarla ci vuole un trust. A questo ci pensa Borelli. Il gioco di scatole cinesi è semplice: viene costituita una società offshore in Belize che non ha nome ma solo un certificato al portatore che prende in carico lo stesso Borelli. A questo punto la società acquista una limited inglese anche questa senza nome che a sua volta si tenie in pancia la Indres srl. Per questa architettura il professionista di Lugano viene pagato con assegni tratti da un conto corrente della Banca Popolare di Bergamo intestato alla Peppone Giochi riconducibile a Lampada. Destinataria del pagamento è la madre di Daniela Sovera, socia e fiduciaria nello studio dello stesso Borelli che non è mai stata interrogata dall’autorità svizzera.
INDAGINI LACUNOSE
E LE COPERTURE ISTITUZIONALI
La scoperta viene fatta dalla madre del notaio nell’ottobre del 2013, quando, con i risultati della nuova autopsia, incontra i magistrati di Lugano. Solo in quel momento, ben due anni dopo la morte del figlio, la signora ottiene alcuni documenti. Si tratta dell’annotazione di polizia giudiziaria firmata dall’ispettore Daniele Schaffer. Due pagine più un paio di verbali d’interrogatorio. Sfogliando il documento ci si accorge che non tutti i testimoni presenti in via Baroffio sono stati identificati e in pochissimi sono stati ascoltati. Il tutto datato il 15 febbraio 2012. Oggi l’ispettore ha lasciato la polizia per essere assunto al Credit Suisse. L’inerzia investigativa, ragiona l’avvocato Peran, è spiegabile solamente ipotizzando coperture istituzionali. Oltre a questo, l’autorità giudiziaria fornisce un cd con le fotografie scattate nell’appartamento di via Baroffio. Solo poche immagini riguardano il cadavere, il resto è un reportage della casa. Da quegli scatti, fatti ingrandire dalla madre, emergono gli ematomi sul volto e i denti mancanti. Ci sono segni di lotta e di una violenza subita. Scatta la denuncia. Eclatante nei contenuti. Inquietante per come fotografa lo stato dell’indagine su un caso che ad oggi resta aperto nonostante quella morte sia stata subito classificata come suicidio.