er bonificare l’angolo di universo intorno al Pianeta, gli scienziati della Japan aerospace exploration agency (Jaxa), l’Agenzia spaziale giapponese, hanno avuto un’idea in apparenza semplice. Considerare i detriti che vagano nello spazio come pesci nell’oceano. E provare a catturarli con una speciale rete mandata in orbita
La discarica abusiva più grande creata dall’uomo non si trova sulla Terra. Galleggia sulle nostre teste, tra gli 800 e i 1400 chilometri di quota. Un ingorgo di circa un migliaio di satelliti, solo meno della metà funzionanti, e 17mila frammenti superiori ai 10 centimetri. Stima approssimata per difetto, che sale a 700mila, se si considerano i detriti di dimensioni uguali o poco superiori al centimetro. Per bonificare l’angolo di universo intorno al Pianeta, gli scienziati della Japan aerospace exploration agency (Jaxa), l’Agenzia spaziale giapponese, hanno avuto un’idea in apparenza semplice. Considerare i detriti che vagano nello spazio come pesci nell’oceano. E provare a catturarli con una speciale rete mandata in orbita.
Il primo passo di questa insolita pesca spaziale è stato compiuto alcuni giorni fa. L’agenzia spaziale nipponica, in una missione congiunta con la Nasa, ha lanciato, insieme a un satellite meteo per il monitoraggio globale delle precipitazioni, un altro oggetto, dall’evocativo nome Stars-2 (Space tethered autonomous robotic satellite-2).
Realizzato con il contributo di una compagnia giapponese specializzata nella costruzione di vere e proprie reti da pesca, si tratta dell’abbozzo di una rete elettromagnetica sperimentale. Lunga 300 metri e formata da una serie di cavi sottili di alluminio e acciaio inossidabile, può generare una corrente elettrica indotta dal campo magnetico terrestre capace, nelle intenzioni degli scienziati, d’imbrigliare ogni detrito capiti nelle sue vicinanze. Una volta catturata, la preda verrebbe poi trascinata verso orbite sempre più basse, fino al suo completo incenerimento per l’impatto con l’atmosfera terrestre. “L’esperimento è stato espressamente pensato per contribuire alla pulizia dello spazio”, afferma Masahiro Nohmi, della Kanagawa University, che da cinque anni segue il progetto, di cui è uno degli ideatori.
“Il rischio maggiore per le missioni spaziali – gli fa eco Nicholas Johnson, a capo dell’equipe di scienziati della Nasa che si occupa dello studio della spazzatura spaziale – viene dalle migliaia di detriti non tracciabili”. Un rischio concreto, se si pensa che la costellazione di oggetti creati in poco più di 50 anni di esplorazione spaziale, a partire dal lancio sovietico dello Sputnik del 1957, può toccare i 28 mila chilometri l’ora. Velocità in grado di trasformare i frammenti in proiettili, che potrebbero ricreare lo scenario descritto nel film Gravity, appena premiato con sette Oscar, dove una pioggia di detriti spaziali investe gli astronauti distruggendo lo Shuttle e la Stazione spaziale internazionale. Non si tratta solo di fantascienza. È già successo. Nel 2009 uno dei satelliti commerciali Usa Iridium-33 in attività si è scontrato con il satellite militare russo Cosmos 2251, non più operativo. Il tamponamento spaziale non ha per fortuna coinvolto astronauti. Ma ha avuto come immediata conseguenza l’incremento della spazzatura cosmica, arricchita di duemila nuovi frammenti.
Per questo, le agenzie spaziali hanno deciso di correre ai ripari. E anche l’Europa non resta a guardare. Uno degli ultimi atti del Parlamento europeo, prima delle elezioni di fine maggio, dovrebbe essere l’approvazione, ad aprile, del programma Space Surveillance and Tracking. Un ambizioso progetto di sorveglianza satellitare, che prevede uno stanziamento di 70 milioni di euro in sette anni, cui ogni singolo Stato membro darà il proprio contributo con infrastrutture e dati in suo possesso. A oggi esiste un solo catalogo del complicato traffico orbitale, quello mantenuto dal Joint Space Operations Center del ministero della Difesa Usa (JSpOC). Informazioni messe a disposizione delle agenzie spaziali che ne fanno di volta in volta richiesta, ma spesso classificate, perché molti dei satelliti in funzione sono militari.
La missione giapponese dei giorni scorsi non inizierà, però, a fare pulizia. Servirà per il momento solo a testare la fattibilità del progetto. “In questa prima fase sono due i nostri obiettivi – conclude Nohmi -. Estendere la rete fino a 300 metri e controllare il trasferimento di elettricità”. La vera e propria pesca inizierà con le successive missioni, a partire dal 2019.