Parla l'amico dell'uomo morto in ospedale il 15 giugno del 2008, dopo che era stato fermato dalle forze dell'ordine ubriaco per strada e trattenuto in caserma a Varese: "Avevo il dovere di denunciare. Finalmente inizierà un vero processo"
Passeggiare su via Dandolo con Alberto Bigioggero è come fare un salto indietro di sei anni. Mentre, con calma apparente, il migliore amico di Giuseppe Uva ricostruisce la notte tra il 14 e il 15 giugno 2008, sembra quasi di vederle, quelle transenne spostate per una bravata, “una delle nostre azioni sconsiderate”. E poi quella Gazzella dei carabinieri, arrivata alla fine, e quelle voci concitate: “Uva, stanotte proprio te stavo cercando, questa me la paghi”, sentì dire a quel carabiniere. “E allora pensai: ‘Adesso sono cazzi’”. Martedì scorso il gip Battarino ha richiesto alla Procura di Varese l’imputazione coatta per due carabinieri e sei poliziotti, che dovranno essere accusati di arresto illegale, omicidio preterintenzionale e abbandono di incapace. A sei anni dalla morte di Uva e dopo un processo medico finito nel nulla (perchè ad ammazzare Uva non furono i farmaci), per tutti i reati, tranne l’omicidio, si avvicina il rischio prescrizione.
Bigioggero, secondo la famiglia Uva è un nuovo inizio. Lo crede anche lei?
È una svolta positiva, finalmente. Forse si cercherà davvero di capire come è morto e di cosa è morto Giuseppe. Certo non si può venire ammazzati per aver transennato una via del centro. In un Paese libero e democratico, per una cosa del genere si può essere messi in stato di fermo e processati, ma non venire uccisi.
Di quella notte si disse che Uva fosse ubriaco, circostanza in parte smentita dalle perizie.
Ma, se anche fosse, non si può morire per qualche birra di troppo.
All’arrivo dei carabinieri cosa accadde?
Fummo divisi subito. Lui fu scaraventato a terra, poi nell’auto dei militari. Mi chiamò formulando una pesantissima richiesta di aiuto. Quando poi arrivai in caserma, vidi il via vai di carabinieri e poliziotti e lo sentii gridare. Gli chiesi di smetterla di massacrarlo. Mi risposero che dovevo essere io a smetterla e di non preoccuparmi perchè tanto dopo sarebbe arrivato il mio turno. Non vidi mai più Giuseppe.
Lei quella notte riuscì a chiamare il 118, anche se poi l’ambulanza fu fermata dagli stessi carabinieri. In tutti questi anni ha continuato a denunciare. È stato coraggioso.
Quando sei convinto di quello che hai visto e sentito, quando sei testimone di un omicidio non puoi far finta di niente.
Quindi lo rifarebbe?
Farei anche di più… No, non transennare la strada (sorride, ed è una delle rare volte, ndr), denunciare, questo sì.
Secondo lei, il coraggio della famiglia Uva ha influito sull’andamento giudiziario?
Lucia (la sorella di Giuseppe, ndr) è una donna meravigliosa, come suo marito e le sue sorelle. Senza di loro il mio amico non potrebbe avere giustizia, la sua morte sarebbe stata dimenticata e archiviata.
Quindi ha fiducia nella giustizia?
Da martedì sera sì.
Eppure lei, testimone chiave, è stato sentito solo a novembre 2013 dal pm Abate, su cui – anche per come ha condotto il suo interrogatorio – pende una doppia richiesta di azione disciplinare dal ministero della Giustizia e dalla Procura generale della Cassazione.
Io sono stato più volte definito un testimone inattendibile. Ma sa, anche una parte della città dice che eravamo due ubriaconi, mezzi drogati. È stato un interrogatorio molto singolare, durante il quale per più di quattro ore mi sono sentito non un testimone, ma un imputato.
I legali della famiglia hanno chiesto al procuratore capo pro tempore Isnardi di rispettare i tempi chiesti dal gip per l’imputazione coatta (dieci giorni, che scadono il 21 marzo) e di togliere il caso ad Abate.
Mi auguro anch’io che l’accusa venga sostenuta da un altro pubblico ministero. Questi sono stati sei anni di occultamenti, di menzogne, di illazioni. Sei anni in cui è successo poco o niente. E intanto i tempi della prescrizione sono andati avanti.
Uva, Aldrovandi, Cucchi, Ferrulli e tanti altri. Non crede che stia succedendo un po’ troppo spesso che la gente muore mentre è nelle mani dello Stato?
Certo, noi tutti ne sappiamo qualcosa. E il paradosso è che le forze dell’ordine ci dovrebbero tutelare, lo dice il nome stesso, e così i magistrati e i pubblici ministeri.
In questi sei anni si è chiesto perché è morto Giuseppe Uva?
Io l’ho sempre saputo e l’ho sempre denunciato. L’ho sempre gridato. E lo sanno benissimo i suoi familiari e i suoi amici, anche tutti coloro che lo sono diventati in questi anni senza averlo mai conosciuto.
E allora perché è morto?
Perché è stato massacrato di botte, perché è stato sodomizzato. E una violenza del genere non può che essere insensata. Adesso attendiamo questo altro processo. Io mi aspetto la verità e non me la aspetto solo io. La vuole la famiglia, la vogliono gli amici. La esigiamo da cittadini liberi.
di Silvia D’Onghia e Alessandro Madron
da Il Fatto Quotidiano del 16 marzo 2014