Inizio con questo post una serie di interventi dedicati alla poesia contemporanea intitolata Duetti, in ognuno dei quali metterò accanto opere anche molto lontane tra loro, invitandole a dialogare, a partire da un elemento comune. Non recensioni, dunque, piuttosto stimoli, provocazioni, oltre gli autori e le loro opere, con la coscienza che la poesia è nata prima dei poeti.
Intanto: tra le tante rimozioni e condanne al trovarobato letterario quella della cosiddetta poesia impegnata, o civile, impressiona per la puntualità con cui essa è coincisa con l’era della morte (tutta presunta) delle ideologie e della pletorizzazione del Pensiero Unico.
Poiché, se è certo che non saranno alcune mosche cocchiere a conquistare il Palazzo d’Inverno, peraltro è difficile immaginare di smascherare gli immaginari dominanti che sono strumenti concreti di schiavitù diffusa, rinunciando alla poesia, che di quegli immaginari in qualche modo articola la lingua nei suoi strati più profondi.
Così, con buona pace di tanti ‘coccodrilli’, la poesia torna a prendere partito. Si schiera, o comunque non pare disponibile a distogliere lo sguardo.
Poi: c’è davvero poco in comune tra Come una lacrima (duemila uno) di Federico Scaramuccia (d’if, 2011) e Il non potere di Davide Nota (Sigismundus, 2014), se non una moderata vicinanza anagrafica degli autori e una comune disposizione a indagare, osservare, dire, criticare il reale. Se non, insomma, un’evidente propensione civile, sia pur declinata in forma diversissima.
Opera smilza ed essenziale è quella di Scaramuccia, dedicata a un unico ma simbolico episodio, quello del 11 settembre 2001, che si veicola sotto mentite spoglie teatrali. È un ‘dramma in due atti’ in cui un’evidente tendenza all’ ‘icasticità classica’ viene fatta scontrare con registri aspramente espressionisti (quasi alla Rebora).
Le immagini della “lacrima” e quella della “colomba rapace” esplicano bene i due poli, apparentemente inconciliabili, ma portati a circocircuitare con ostinazione, in una generale tendenza a far esplodere i significati delle parole, stirandole sino all’estremo, costruendo un’allegoria che ha lo scopo evidente di mettere in dubbio le percezioni, prima ancora del reale.
Il ‘tragico’ è qui tentato come registro ‘politico’, poiché solo il collettivo può assurgere sino alle vette del tragico: un’opera fatta di frame, di singoli fotogrammi, di spezzoni di voci, di sguardi sbilenchi, sempre parziali. Che pure tende al tragico, che si vuole tragica, proprio a partire dalla sua ambivalente frammentarietà.
La raccolta di Nota è, invece, un volume ponderoso che raccoglie circa un decennio di produzione, scandito nei quattro libri qui riuniti. Ed essa parte piuttosto dalla conclusione che il tragico sia ormai impossibile, anch’esso precarizzato, come ogni cosa, come l’autore stesso, spiazzato, depotenziato, ago irrecuperabile nel pagliaio della sensibilità contemporanea, scoria in un panorama di scorie.
E se l’allusione alla linea della sperimentazione – moderna e postmoderna – resta in Scaramuccia, appunto, solo un’allusione, Nota dichiara invece le sue ascendenze, lungo una linea anti-novecentista che va da Saba, nel suo gonfiarsi politico, sino a Pasolini e a De Lia, con la rimozione, singolare, ma evidentemente necessaria, del Crepuscolarismo, qui identificato probabilmente con Gozzano, temuto e rimosso a ragione, come porta aperta all’aborrita Avanguardia (mentre Fortini fa capolino, ma solo di sguincio).
Anti-novecentista l’una, dunque, quanto assolutamente moderna l’altra: una descrive, l’altra narra, mette in campo sensi e sentimenti – antica dualità letteraria del Moderno codesta, ma entrambe poi condividono un certo tic espressionistico e una vena d’indignata sprezzatura.
Nota dice, contesta, scava, scopre, argomenta, Scaramuccia sembra resti a guardare e si limiti a impressionare delle ‘lastre linguistiche’ facendole aderire al reale, con effetto fortemente straniante.
In entrambi c’è – sorprendentemente – il bisogno di “auto-glosse”, la necessità di spiegare, chiarire, quasi un segno, in Nota direi evidente, di una sfiducia nella lettura critica, che va anticipata, incanalata, dando il suggerimento “giusto”, una critica che si può controbattere in anticipo, quasi fosse un prevedibile precotto.
Forse la poesia torna a essere impegnata. La critica invece, apparentemente non milita: piuttosto latita?
Chissà, visto che entrambi in realtà scherniscono il loro aspetto civile: Nota esplicitamente, Scaramuccia con l’evidenza di molti silenzi.
In entrambi è poi la tendenza a una certa cantabilità del verso (innanzitutto dell’endecasillabo) che si affida alle rime baciate, alle assonanze, ma solo a fine verso, perché esso non perda mai la sua riconoscibilità.
Non a caso, entrambe le opere alludono alla voce, ma infine la scartano, o almeno la pospongono, la contemplano quale eventualità, ma in ogni caso non le si vincolano.
La paura della retorica è evidente, nella sua ambivalenza semantica di arte del discorso e/o trombonismo da vate, magari molto engagé.
Piuttosto, in entrambi i casi, il poeta si sforza di dare voce all’altro da sé, interpretandolo, con buona pace di Heisemberg (e di Flaubert).
Resta da stabilire che senso abbia l’impressione, per entrambi, di trovarsi di fronte a degli ‘exempla’ , e come, nel turbinio frammentato di quest’accelerazione spasmodica e centrifuga che chiamiamo presente, essi possano riuscire a costituirsi in materia di ‘luogo comune’, senza diventare, invece, voci pregevoli di un catalogo o, se si preferisce, quadri per un’esposizione.
Tutto ciò, ovviamente, per porsi la domanda più importante e cioè se sia ancora possibile, e che forme abbia assunto, o assumerà, la poesia impegnata oggi. O se si debba, invece, cambiare verso.