La rappresentanza culturale italiana in piena smobilitazione. Il direttore non confermato per presunte irregolarità contabili e amministrative. A tre mesi dal semestre italiano dell'Unione si scopre che gli insegnanti di lingua hanno lavorato per anni senza un contratto, perfino dentro la Commissione Europea. Le risorse però si sprecavano tra vernissage e rinfreschi, compreso un "pranzo per D'Alema" da 16mila euro
Da Bruxelles
Nella cassetta di sicurezza c’era ancora una busta chiusa con 1.334,59 euro. Neppure una scritta. Forse erano proventi di un evento mai rendicontati. Perché all’Istituto italiano di Cultura a Bruxelles un vero contabile non c’era. C’era invece un segretario e pare avesse anche un doppio lavoro: visto il giro di ricevimenti e banchetti, ha pensato bene di farsi la sua società di catering. Si spediva i preventivi e se li autorizzava. Duemila, tremila euro alla volta. Per contro gli insegnanti di lingua, che dovevano essere il fiore all’occhiello dell’istituto, lavoravano da anni senza un contratto. Solo impegni a voce e mandati di pagamento, le ore e gli importi scritti a penna. Nessuna ritenuta, niente tasse, zero contributi. Il capolavoro è stato poi ingaggiarli perché tenessero corsi ai funzionari della Commissione europea. La Commissione fatturava all’Istituto, i soldi finivano a professionisti abilitati ma irregolari da sempre. Lampi da Bruxelles, dove la credibilità del Belpaese è appena affogata in un pasticcio coi fiocchi.
Mentre Renzi esordiva al Consiglio Europeo, giovedì scorso, la rappresentanza culturale presso il Consolato, in Rue de Livourne, era in piena smobilitazione. Pacchi e documenti in partenza per l’Italia, compresa la direttrice dell’Istituto di cultura. Ricercatore a Tor Vergata, Federiga Bindi era stata nominata per “chiara fama” da Frattini (9.600 euro di indennità mensile). Il suo incarico è scaduto il 9 marzo e non è stato rinnovato anche a seguito dei risultati di un’ispezione del Mef che nel 2013 ha rilevato “gravi irregolarità contabili e amministrative” nella gestione dell’ente: acquisti senza “determinazione a contrarre” (una cucina professionale da 13mila euro, frigo e altri materiali per 5mila…), irregolarità per contratti e consulenze esterne, 9mila euro di acquisti non rendicontati con la carta di credito dell’istituto.
Le carte sono già alla Corte dei Conti, da Roma arriverà un nuovo direttore proveniente dai ruoli del ministero e non più di nomina politica. Ma la vicenda è tutt’altro che chiusa. “Procederò nei modi e nelle forme appropriate per poter ristabilire la verità dei fatti e la mia integrità professionale, fisica e morale”, annuncia la Bindi. Quale verità? Fermata praticamente sulla porta, sostiene che l’ispezione avesse rilevato irregolarità riferibili anche alle precedenti gestioni ma abbia poi avuto effetti solo sul suo incarico, determinandone l’uscita di scena. Sia come sia, la contabilità degli anni passati è ancora lì da vedere, quando c’è. E riserva diverse sorprese.
La Belle Époque dell’Istituto: dai vernissage al “pranzo per D’Alema”
Vernissage, eventi di nicchia e generosi banchetti. Dall’archivio della contabilità riaffiorano le tracce di un’epoca d’oro in cui il prestigio dell’Istituto si guadagnava anche spendendo ingenti risorse tra mostre, eventi e rinfreschi. La dotazione ministeriale per l’istituto è raddoppiata nel giro di un paio d’anni fino a superare i 600mila euro per esercizio. Le uscite nel 2006 ammontavano a 774mila euro, l’anno dopo supereranno il milione. I costi di catering lievitano come la panna: 30mila euro nel 2004, 35mila nel 2005, 58mila nel 2007. Una fattura per quell’anno riporta la causale “Pranzo per il ministro D’Alema”: 153 persone in uno dei resort più esclusivi di Bruxelles, praticamente un banchetto di nozze, 16mila euro il conto. “La cucina professionale è servita ad abbattere questi sprechi e tornare sui 10-12mila euro”, sostiene la defenestrata Bindi. “Io lascio un bilancio risanato e in attivo ma mi contestano irregolarità procedurali. Poi chiudono gli occhi su un passato ben più pesante”.
Il riferimento è alla storia contabile degli ultimi anni, a tratti un groviera. Nel 2005 l’ex direttore Pialuisa Bianco certifica un avanzo di 47.049,29 euro: conti in attivo. Cinque ottobre 2007, la Bianco lascia l’Istituto spiegando che «a fronte della prima tranche di dotazione finanziaria incassata, pari a 240 mila euro, si riscontrano 483.333,05 euro di autofinanziamento pari a due volte la dotazione finanziaria». Due settimane dopo la reggente pro-tempore, Donatella Cannova, segnala al Ministero fatture non liquidate, non elencate nel verbale di passaggio delle consegne, per 39.790 euro. Un’avvisaglia. Il neo direttore, Giuseppe Manica, prende servizio il 18 settembre e un mese dopo accerta che le fatture non liquidate e gli impegni di spesa da onorare ammontano a 192mila euro. La storia finisce con il ministero che dovrà metterci una pezza. Il 31 dicembre Manica chiede un’integrazione straordinaria al bilancio “per far fronte a una situazione debitoria tale da non consentire di corrispondere alle richieste dei creditori, a fronte dei numerosi impegni assunti sotto la gestione dell’ex direttore, dottoressa Pialuisa Bianco”. I conti, a quanto pare, non sempre tornavano.
L’Italia e la lezione di lavoro (nero) all’Europa
Il buco più nero di questa storia è però quello degli insegnanti ingaggiati senza contratti di alcun tipo, almeno fino a marzo 2013, alcuni anche per 10-15 anni di seguito. I vecchi registri sono zeppi di nomi. Gli ultimi contano una dozzina di docenti e solo da un anno sono stati regolarizzati con contratti d’opera. “Sono stata io a fargli avere il primo contratto”, rivendica la silurata Bindi. “Sono arrivata che i corsi erano già iniziati. All’inizio del nuovo semestre ho cercato i contratti in istituto, niente. Li ho chiesti agli insegnanti, niente. Nessuno li aveva, erano tutti al nero da anni. Allora abbiamo studiato le forme di inquadramento possibili, e alla fine abbiamo optato per contratti d’opera intellettuale, redatti in conformità col diritto belga e la contrattualistica degli Istituti. Il MEF ha contestato questa procedura e siamo così arrivati all’ultima spiaggia: farli intermediare da un’agenzia interinale, che però si mangia buona parte del compenso dei docenti e delle entrate dell’istituto”.
Scavando ancora emerge il sospetto di un tacito accordo, sulla pelle degli insegnanti, che si è protratto per anni. “A richiesta del Mae, detti insegnati non hanno nessun contratto e sono ingaggiati sulla base del titolo universitario”, scriveva nel 2006 l’ex direttore Bianco. A richiesta del Ministero, dunque. L’ipotesi, se così fosse, è che tale indicazione venisse impartita direttamente da Roma per evitare che i docenti potessero accampare delle pretese sull’amministrazione sulla base di un impegno scritto. E che l’indicazione trovasse poi sponda a Bruxelles, dove il mancato accollo di oneri contributivi e fiscali garantiva all’Istituto entrate consistenti a costi ridottissimi. E ai vari direttori di ostentare “ottimi risultati di gestione”.
Il rendiconto finanziario 2007, ad esempio, riporta 339mila euro di entrate per le iscrizioni ai corsi a pagamento a fronte di 152mila euro di compensi al personale docente. Per anni poi, sulla base di convenzioni e gare d’appalto, gli stessi docenti venivano mandati a far lezione ai funzionari della Commissione e del Parlamento Europeo, con crescente profitto: 34mila euro nel 2002, 62mila nel 2003, 93mila nel 2007, 120mila nel 2009… Un flash dal rendiconto 2003: entrate per corsi presso IIC e istituzioni europee 151mila euro, uscite per gli insegnanti che li hanno tenuti 80mila, utile in bilancio 71mila euro. Un affare. Le istituzioni europee fatturavano regolarmente all’Istituto, ignare di alimentare lavoro irregolare sottratto agli obblighi contributivi e/o fiscali.
La Farnesina non smentisce né minimizza. La Direzione Generale che sovrintende gli Istituti di Cultura conferma anzi di aver riscontrato irregolarità almeno dal 2007. “Dal carteggio relativo alle passate gestioni emerge un meccanismo di retribuzione di questi insegnanti che sembrava prescindere da un contratto scritto e avvenire solo attraverso la contabilizzazione delle ore del servizio prestato, in assenza anche solo di una lettera d’incarico da produrre in atti”, spiega il ministro plenipotenziario Giovanni Iannuzzi al fattoquotidiano.it. Più indietro l’accertamento non arriverà, anche per ragioni di prescrizione delle eventuali contestazioni di responsabilità. “L’Ufficio centrale bilancio e gli ispettori del lavoro del Mef stanno analizzando, in ordine a questo aspetto, le risultanze sulle precedenti gestioni fino all’ultima, che ha iniziato invece un processo di regolarizzazione ed è oggetto di altre contestazioni”, assicura il funzionario.
La questione è dunque all’attenzione degli organi di controllo. “Tutti i contratti stipulati dalla PA richiedono la forma scritta ad substantiam”, si legge nella relazione ispettiva sull’Istituto trasmessa al Ministero e alla Procura della Corte dei Conti. I finanzieri ricordano che tale obbligo di legge è stato pure ribadito dal Consiglio di Stato con una sentenza del 2003. Ma a Roma come a Bruxelles, sembra non ne sia arrivata notizia per almeno dieci anni. E la grana esplode solo ora, alle porte del semestre italiano dell’Unione Europea.