Diritti

Quando penso a un migrante… rivedo me stessa (di Rossella Paschi)

Rubrica mensile che nasce per mettere in risalto l’immagine con la quale fumettisti, cantautori, scrittori e artisti in generale hanno scelto di rappresentare la figura del migrante, tra immagini, musica e parole.

Oggi pubblichiamo un racconto della scrittrice triestina Rossella Paschi, ex interprete alla Commissione Europea di Bruxelles. Autrice delle commedie teatrali La colazione inglese e Vacanze, fra i suoi numerosi racconti e traduzioni, nel 2011 ha pubblicato la sua opera più importante: Il segretario di Nino (Edizioni Arterigere).
 

Non passate dal bosco

“Non passate dal bosco, ci sono gli italiani!” Ci ammonivano le Fräulein del collegio quando ci davano il permesso di andare a piedi, da sole, fino al vicino villaggio di Klosters. Poi guardavano me e mia sorella e ci dicevano, un po’ contrite: “Scusate, non sono italiani come voi… sono italiani… di un altro genere.” Sapevamo bene il tedesco, lingua succhiata con il latte materno, ma avremmo capito anche lo Schwyzerdütsch a forza di sentirlo tutti i giorni. Anzi, qualche frase sarebbe persino entrata nel lessico famigliare, tipo: “Muluf und inestopfe!”, “Apri la bocca e ingoia!”. Quello era infatti un sanatorio per bambini svizzeri convalescenti di malattie ai polmoni, e noi ci eravamo finite lì per caso, assieme alla tedesca Gretl con le trecce e alla bella Françoise, un’alsaziana della mia età che parlava il tedesco correntemente come noi.

Oltre a non essere malaticce, eravamo anche le uniche autorizzate a uscire da sole, soprattutto se avevano delle incombenze da affidarci. Non era un collegio svizzero elegante per bambini stranieri della buona società, come avevo lasciato intendere io quando andavo in giro a raccontare che quell’estate mia sorella, di nove anni, e io, di dodici, saremmo andate in vacanza in un Kinderheim vicino a Davos, elegante stazione di villeggiatura più conosciuta di Klosters. È vero che gli italiani del bosco sul cui limitare dovevamo passare per forza mentre loro stavano a segare, limare e piallare, ci facevano la corte nonostante fossimo poco più che bambine. Però con discrezione, quasi con affetto fraterno, non erano né volgari né insistenti. E noi, a quell’età, sotto sotto gongolavamo.

Anche la famiglia di mio padre, ebrei italiani originari delle più disparate province dell’impero austro-ungarico, era emigrata in Svizzera durante la guerra. Nel corso della notte mio zio, mia zia con il bambino di 11 mesi, mia nonna e il cognato zoppo con sua moglie avevano attraversato clandestinamente il torrente Tresa su un ponte improvvisato di assi di legno. Mia cugina Patrizia sarebbe nata in un campo di rifugiati. Con l’aiuto di due contrabbandieri mio padre li avrebbe raggiunti più tardi, dopo una rocambolesca fuga dalla polizia fascista.

Una volta arrivata all’età della ragione io ho deciso di andarmene di casa. Sono emigrata a Bruxelles con in tasca un contratto d’oro che mi era stato presentato su un vassoio d’argento dalla Commissione Europea. Nei locali frequentati dai funzionari europei dovevo subire la spietata concorrenza delle ragazze belghe mandate lì dalla mamma a cercare marito. Meglio se italiano: più bello, più divertente, più elegante. 

A Bruxelles continuano ad affluire giovani di tutti i paesi che sperano di trovare un lavoro, sia pure saltuario. E non si sa mai, che si riesca a catturare un partner con un contratto quanto meno decente. Perché i contratti non sono più d’oro e mancano i vassoi per presentarli.