Venti di guerra tra Russia ed Ucraina, sulla questione del referendum secessionista della Crimea; mentre Unione Europea ed Usa si muovono per “ripristinare la legalità internazionale” le dichiarazioni di netta condanna di Obama non hanno convinto tutti.

Partendo dal presupposto che il destino della maggioranza di lingua russa che abita la Crimea non è probabilmente in cima (né a metà) nella lista di preoccupazioni di Putin, bisogna però ammettere che la questione sul tavolo è ben più complessa di quanto non l’abbia fatta apparire la stampa occidentale (soprattutto anglosassone); bisogna allora distinguere il piano giuridico (internazionale) da quello politico. Utilizzare in maniera pretestuosa interpretazioni un po’ di parte di cavilli del primo, per giustificare la condanna di un atto politico, non porta lontani. E nel caso della Crimea, forse, non porta proprio da nessuna parte.

A cominciare dalla legittimità (o meno) del referendum: secondo la Costituzione ucraina su eventuali modifiche territoriali deve pronunciarsi la popolazione intera. Giusto, ma in Kosovo, il precedente che tiene maggiormente banco nella dialettica sulla crisi in Crimea, non si pronunciò l’intera popolazione serba (il Kosovo era infatti, tecnicamente, una regione autonoma della repubblica serba), ma solo la minoranza linguistica albanese, maggioranza nella regione kosovara. E quel risultato, benché non riconosciuto da Belgrado (e neppure da Putin), venne considerato legittimo da parte della Corte Internazionale di Giustizia, il massimo organo delle Nazioni Unite. E poco convince la postilla di allora della Corte che affermò come di “caso unico e non ripetibile” si trattasse.

Certo nei confronti della popolazione kosovara e di quella Sahrawi nel Sahara Occidentale le gravi violazioni dei diritti umani compiute, rispettivamente, dalle autorità serbe e da quelle marocchine, rendono questi due esempi ben lontani dalla crisi in Crimea anche se non si può ignorare il fatto che la popolazione della penisola del Mar Nero si sia pronunciata, ed in maniera abbastanza netta, sul proprio futuro. Indipendentemente dall’illegalità o meno della consultazione: in fondo le secessioni sono sempre atti illegali, almeno dal punto di vista delle autorità che “subiscono” l’addio (la Serbia è un caso di scuola, avendo “perso” tanto il Kosovo quanto il Montenegro)

Non si ha notizia di violenze ai seggi, di intimidazioni per influenzare il voto a favore della secessione o di un clima di terrore che possa aver indotto la popolazione locale alla “resa” per timore di un’occupazione militare: a quanto sembra, il voto è stato regolare, seppur convocato in fretta e furia. Era stata persino invitata l’Ocse per supervisionare il corretto andamento delle operazioni;  invito informale declinato poiché la Crimea non è uno stato sovrano.

Secondo Ian Birrell, inviato in Crimea del Guardian, un recente sondaggio aveva inequivocabilmente indicato che la maggioranza degli abitanti della Crimea non vuole l’annessione con Mosca. Ma questo sondaggio è stato scritto chiaramente sulla pagina del Washington Post che il giornalista inglese aveva preso come fonte, non è rappresentativo della Crimea, ma dell’intera Ucraina. Specificando, tra l’altro che Crimeans are broadly opposed to a dramatic westward geopolitical reorientation of Ukraine, and a substantial minority supported either independence or full political union even before February”

Un altro parere accademico, sempre del Guardian, finisce invece per chiudere la questione tra gli steccati del formalismo: Lea Brilmayer, docente di diritto internazionale a Yale, usa argomenti che richiamano una sorta di “diritto di proprietà” ucraino sulla Crimea, dimenticando la complessa ed articolata storia della regione (sotto la sovranità ucraina, in maniera per giunta molto autonoma, solo dal ’92). Certo è difficile credere che la presenza dell’esercito di Putin nella regione abbia rispettato una sorta di “par condicio”, ma è altrettanto vero che non ci sono state testimonianze di violenze sistematiche, intimidazioni o di autobus pieni di migliaia di nazionalisti russi che da Mosca hanno invaso i seggi della Crimea per alterare i risultati del voto. La studiosa americana accenna all’ipotesi, ma in effetti non può andare oltre la mera speculazione.

Quindi potrebbe essere un’ipotesi concreta pensare che la regione sia volontariamente tornata tra le braccia di Madre Russia e pare certo che Putin non abbia cercato di “ripopolare” la regione la notte prima del voto: che la penisola fosse abitata in maggioranza da ucraini di etnia e lingua russa era ben noto da prima dello scoppio della crisi. E la mossa dell’assemblea della Crimea di chiedere l’annessione a Mosca e non semplicemente di proclamare la propria indipendenza eviterà che l’”effetto Kosovo” si abbatta sulla regione: pur in presenza di un riconoscimento ampio, suggellato dal pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia, lo stato parte dell’ex Jugoslavia ha ottenuto riconoscimento solo dalla metà dei membri delle Nazioni Unite. Per la Crimea, il problema non si pone: eventuali sanzioni o ritorsioni riguarderanno Mosca, non Sinferopoli.

L’ipotesi più probabile viene ventilata dal Cambridge journal of international and comparative law: alla fine prevarrà certamente il principio di “effettività” ed il mondo occidentale non potrà farci nulla. Senza prove schiaccianti che dimostrino frodi elettorali, il voto di domenica è  illegittimo (per il diritto interno ucraino), ma politicamente indiscutibile.

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