La pellicola sarà nelle sale dal 27 marzo. A quasi trent’anni dalla sua scomparsa, il ricordo dello storico segretario del Pci si scopre tristemente labile. Evaporato in una nuvola rossa, come gli amici fragili di De André e come quel senso di appartenenza che pareva naturale quando c’era lui e volergli bene – non solo per Benigni – era cosa scontata
La parte più terribile di Quando c’era Berlinguer è quella iniziale. Studenti universitari e professoresse colpevolmente ridanciane esibiscono la loro ignoranza: “Berlinguer chi?” Domanda troppo difficile. “È quello che ha inventato la bomba?”, “No, le sue canzoni di sinistra non mi piacciono”. A quasi trent’anni dalla sua scomparsa, il ricordo di Enrico Berlinguer si scopre tristemente labile. Evaporato in una nuvola rossa, come gli amici fragili di De André e come quel senso di appartenenza che pareva naturale quando c’era lui e volergli bene – non solo per Benigni – era cosa scontata.
Il film, una produzione Sky realizzata da Palomar, sarà nelle sale da giovedì 27 marzo. A giugno verrà trasmesso su Sky Cinema, a ottobre diventerà un volume per Rizzoli. Veltroni ha firmato un gioiello di 110 minuti evitando la retorica, e non era scontato. Il regista, benché esordiente, convince più del politico: Quando c’era Berlinguer è la sua cosa più ispirata assieme al libro Il disco del mondo. Qualcuno la riterrà un’opera troppo indulgente, lamentando per esempio l’assenza di un riferimento alla benevolenza con cui il leader plaudì gli “eroici combattenti di Cambogia e Vietnam” e dimenticò le atrocità degli khmer rossi. E certo il contributo di Jovanotti, che Veltroni ha avuto la colpa (antica) di accreditare come “intellettuale”, è davvero esile.
Dettagli: c’è partecipazione ma non agiografia. C’è il giovane Enrico che saluta in stazione Togliatti, sul treno che porterà il presunto “Migliore” ai funerali di Stalin. E ci sono i dolori di Berlinguer, morto due volte come sostiene Veltroni, la prima dopo il sequestro Moro e la seconda a Padova. La ferita della vignetta su Repubblica di Forattini nel ’77, che lo disegnò come un borghese che sorseggiava tè sotto il poster di Marx mentre montava la rabbia dei metalmeccanici. La sconfitta a Torino, autunno 1980, nello scontro tra Fiat e operai. E la contestazione a Verona durante il 43esimo congresso Psi, maggio 1984. Craxi rivendicò quei fischi, che vedevano tra i firmatari noti statisti come Tremonti e Brunetta.
La differenza tra Berlinguer e Craxi era abissale, bastano alcune foto – mostrate dal film – a evidenziare il disprezzo reciproco. La pellicola vanta musiche originali di Danilo Rea e un brano inedito di Gino Paoli, oltre che i cameo vocali di Toni Servillo e Sergio Rubini. Veltroni fa molti passi indietro e lascia tutto il proscenio a Berlinguer. Dissemina giusto qualche ricordo personale, come il giovane Giuliano Ferrara che marciava ostentando il pugno chiuso o quel senso di cambiamento imminente che il regista visse in prima persona dopo il trionfo alle elezioni del ’76. Ogni generazione ha i suoi match point e fu allora che passò il treno. Invano. Il record del 34.4% alimentò entusiasmi destinati a sbriciolarsi rapidamente: chi sognava il cambiamento si trovò il monocolore del terzo governo Andreotti, quello della “non sfiducia”.
Da un giorno all’altro furono in tanti ad abbandonare il Pci, preferendo movimentismo e sinistra extraparlamentare. Neanche un anno dopo, nel febbraio ’77, il segretario della Cgil Luciano Lama fu cacciato dall’Università di Roma. De André e Bubola canteranno: “Capelli corti generale ci parlò all’Università/dei fratelli tute blu che seppellirono le asce/ ma non fumammo con lui non era venuto in pace/ e a un dio fatti il culo non credere mai”. Era già tutto finito. Uomo fuori sincrono, forse perché troppo avanti e forse perché graniticamente cristallino, Berlinguer inseguì l’alleanza nei Settanta e l’alternativa negli Ottanta. L’esatto opposto di Craxi. Berlinguer fu l’uomo dell’eurocomunismo e del lento strappo con l’Unione Sovietica.
Nessun dirigente comunista occidentale ha pronunciato parole dure come fece lui a Mosca nel ’69 e nel ’76: parole che rischiò di pagare con la vita, quando nel ’73 subì un attentato a Sofia verosimilmente ordito dal partito comunista bulgaro. Berlinguer aprì perfino alla Nato, senza peraltro che la Nato aprisse a lui.
Da abile comunicatore, rese pubblico il suo carteggio con il Monsignore di Ivrea Luigi Bettazzi. Voleva dimostrare che il dialogo tra cattolici e comunisti era l’unica strada, ancor più dopo il martirio di Allende in Cile e la lotta armata in Italia. Le Brigate Rosse, con l’omicidio Moro, strozzarono il compromesso storico nella culla. E Berlinguer morì la prima volta. Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Br, nel film rivendica odiosamente quella strategia. La pellicola vede sfilare Tortorella e Scalfari (più tronfio che arguto, e non è una novità), Ingrao (straziante) e Bianca Berlinguer, l’ex ministro socialista Claudio Signorile (respingente oggi come allora) e il capo-scorta Alberto Menichelli. Ci sono anche le lacrime di Giorgio Napolitano, che si commuove ripensando a quando c’era Enrico, e chissà se piangendo ha ripensato anche a quando il non ancora Re Giorgio attaccò Berlinguer per avere osato parlare di “questione morale”.
Il film si apre con una Piazza San Giovanni vista dall’alto. Sul prato di oggi svolazzano le prime pagine de l’Unità di ieri. Mai più quel sentirsi diversi: quel credere che il comunismo italiano potesse essere la scorciatoia ideale per una vita migliore. Proprio come raccontava Gaber, che Veltroni ovviamente cita. Berlinguer morì l’11 giugno 1984 a Padova a 62 anni. Si era sentito male, sul palco, quattro giorni prima. I compagni gli gridavano di riposarsi, ma lui niente. La sera prima, inaugurando la sezione ligure di Riva Tregoso, gli ultimi sorrisi. A Padova arrivò un uomo consunto. Le immagini del suo discorso, arricchite da chi quel giorno c’era e non ha ancora smesso di piangere, sono pressoché insostenibili. Bevve e si sentì male. Ictus. Eppure portò a termine il discorso con i vocaboli di sempre, per non sporcare l’addio. “Casa per casa, strada per strada”.
Mai più quel rigore timido, quel carisma gentile. Solo titoli di coda, dissolvenza e fine di un’epoca. Da fervido beatlesiano qual è, a Veltroni non spiacerà sapere che il suo film ha il garbo e il rigore che Martin Scorsese distillò nel raccontare George Harrison e The Band. Vite materiali e spirituali. Ultimi valzer. Cadaveri di utopia.
Da Il Fatto Quotidiano del 19 marzo 2014
Il trailer