Linee della metro chiuse. Attese prolungate alle fermate degli autobus. Clacson e traffico in tilt, sia in centro che in periferia. E’ il rischio che oggi corrono molte città italiane. Per quello che ormai sembra un rituale dei giorni nostri: lo sciopero del trasporto pubblico locale. Questa volta lo hanno indetto a livello nazionale Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Faisa-Cisal. Due settimane fa era stato il turno del sindacato Orsa, con ingressi della metropolitana sbarrati a Milano e disagi anche in altri comuni. Mentre il 24 gennaio la protesta era stata portata avanti dall’Usb. E ora ci risiamo. Nodo del contendere? Il contratto nazionale degli autoferrotranvieri, scaduto alla fine del 2007. Sul suo mancato rinnovo, che coinvolge circa 110mila lavoratori, pesa la situazione di sfascio del settore. E lo stallo crea disagi dove le aziende di trasporto sono in forte rosso, come a Roma. Ma anche in città come Milano, dove l’Atm è in utile.
Oltre sei anni di trattative, ma sul contratto nazionale nessun accordo.
Finora non sono bastati più di sei anni perché un accordo venisse raggiunto tra i sindacati e le associazioni datoriali Asstra e Anav, che riuniscono le aziende del trasporto pubblico locale, sia quelle partecipate dagli enti locali, che quelle private. Il problema sono sempre loro, i soldi. La crisi ha limitato le risorse pubbliche messe a disposizione del settore, che proprio dai contributi del governo è fortemente dipendente. E la malagestione ha fatto il resto. Tanto che “il 40% delle aziende – ha ricordato a fine 2013 l’allora sottosegretario con delega al trasporto pubblico locale Erasmo D’Angelis – è tecnicamente fallito o con indebitamenti record”. E se le aziende sono in rosso, non hanno denaro sufficiente da offrire nella trattativa per il nuovo contratto. Che quindi – sostengono Asstra e Anav – deve essere autofinanziato dai lavoratori. Ovvero i miglioramenti salariali non devono aumentare i costi aziendali, ma vanno controbilanciati da un aumento di flessibilità e di produttività. Più lavoro insomma, una condizione che il sindacato non accetta.
Il contratto lavorativo scaduto prevede una media su 4 mesi di 39 ore alla settimana. “L’unica proposta concreta che ci è arrivata dalle associazioni datoriali – dice il segretario nazionale della Filt-Cgil Alessandro Rocchi – è di portare l’orario a una media di 40 ore settimanali in una finestra allungata a 12 mesi”. Più produttività e più flessibilità, appunto. Inaccettabile per Rocchi, visto che “le 39 ore settimanali sono in linea con i contratti di altre categorie e la media calcolata su 17 settimane garantisce già una flessibilità che in altri settori non c’è”. E accusa: “Le associazioni datoriali chiedono che il contratto lo paghino i lavoratori. O in alternativa vogliono soldi dal governo”.
L’ultimo tentativo di arrivare a un accordo è di settimana scorsa. Attorno al tavolo si sono seduti anche il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Maurizio Lupi, che per convincere Asstra e Anav a firmare un nuovo contratto ha messo sul piatto lo sblocco di 1,2 miliardi di crediti che le aziende di trasporto vantano verso la pubblica amministrazione. Le società potrebbero così risparmiare 120 milioni di interessi all’anno sui debiti fatti con le banche, ma l’offerta non ha riscaldato più di tanto le associazioni datoriali, secondo cui non si tratterebbe di un intervento strutturale, ma solo di un atto dovuto. “La loro unica richiesta è da sempre più soldi pubblici e peggiori condizioni di lavoro”, accusa il segretario generale della Fit-Cisl Giovanni Luciano, che invita le aziende a lasciare Asstra, come ha già fatto l’Atm di Milano. “Faremo il contratto con altri, se alle due associazioni non interessa”, conclude Luciano.
Un settore allo sfascio con poche risorse pubbliche
Per facilitare la firma del contratto, il governo per ora altri soldi da mettere non ne ha. Il fondo nazionale creato nel 2013 per finanziare in modo strutturale la gestione del trasporto pubblico locale è di 4,9 miliardi l’anno. Per raggiungere il fabbisogno stimato in 6,4 miliardi, le regioni dovrebbero aggiungere una parte dell’ex fondo perequativo, le cui risorse però non sono espressamente destinate ai trasporti e quindi rischiano di essere utilizzate per altri settori. Secondo le tabelle riportate nel dossier ‘Mobilità urbana’ della Cassa depositi e prestiti, nel 2013 i finanziamenti pubblici hanno contribuito al 53,6% dei ricavi delle aziende. Molto di più dell’incasso dovuto ai biglietti (29,5%) e alla vendita di spazi pubblicitari, alla gestione di parcheggi e ad altre fonti di ricavo (16,9%).
L’intervento statale è dunque fondamentale per tenere in piedi la gestione operativa di un servizio, che come la sanità, non si regge da sé. Così come è fondamentale sul fronte degli investimenti. Per colmare il gap infrastrutturale di reti metropolitane e tranviarie che le città italiane scontano rispetto a quelle europee, sarebbero necessari secondo l’Asstra 20 miliardi di euro in 10 anni. Altri 7,5 servirebbero nello stesso periodo per portare l’età media del parco veicoli su gomma, che in Italia è pari a 11,6 anni, al livello della media Ue (7 anni). Altri 2 miliardi consentirebbero di adeguare l’età media del materiale rotabile. Ma anche qui, le risorse sono insufficienti, visto che dopo anni di investimenti nulli, il governo Letta ha cambiato rotta, ma è riuscito a stanziare appena 500 milioni di euro per il triennio 2014-2016. Troppo poco. Tanto più che mezzi vecchi significano spese di manutenzione elevate, e quindi costi più alti per la gestione del servizio. Un circolo vizioso da cui non si esce.
“Siamo in una situazione eccezionale in cui molte aziende sono al limite del fallimento – spiega il presidente dell’Asstra Marcello Panettoni –. Non possiamo firmare un contratto che aumenti i costi di gestione. Per questo chiediamo ai sindacati più produttività e più flessibilità, che noi restituiremo in stipendi”. Una richiesta che secondo Panettoni vorrebbe dire organizzare i turni in modo che non si verifichino più i casi di aziende dove i lavoratori arrivano ad avere “più di 90 giorni di riposo all’anno, anziché i 52 stabiliti dal contratto nazionale”. E vorrebbe dire aumentare le ore di guida: “Su una giornata lavorativa che di solito è di 6 ore e mezza, in alcune città le ore di guida sono 4 o 5. E’ chiaro che non si possa condurre il mezzo per 6 ore e mezza, ma questa differenza va ridotta”. Tutte questioni che però sono materia di contrattazione di secondo livello, fa notare dalla Filt-Cgil Rocchi: “Il contratto nazionale non si può sostituire alla contrattazione locale e non può introdurre meccanismi di efficientamento senza che vengano modificati gli accordi aziendali”.
Insomma, per ottenere più efficienza sarebbe necessario mettere mano agli accordi di ogni singola azienda. Cosa che con ogni probabilità non farebbe piacere ai sindacati locali. Ma per Rocchi il punto non è questo: “Il vero problema è che gran parte delle aziende pubbliche continuano a essere dirette da sottoprodotti della politica locale”.
Dai costi storici ai costi standard
Alla scarsità di risorse pubbliche si aggiungono gli sperperi degli amministratori delle società. Così si sono incancrenite situazioni come quella dell’Atac di Roma, che in dieci anni ha accumulato perdite per quasi 1,6 miliardi di euro. Mentre il sistema di distribuzione dei fondi pubblici sembra fatto apposta per alimentare le voragini, dal momento che si basa sui costi storici: le aziende che in passato hanno speso di più, incassano più soldi dallo Stato e non vengono incentivate a diventare più efficienti. Tale sistema non ferma gli sprechi. E non premia le aziende più virtuose, come Atm, che nel 2012 ha registrato 4,4 milioni di utili e oltre al trasporto di Milano gestisce quello di Copenaghen.
Il ministro Lupi sta così lavorando per introdurre i costi standard, in modo da ripartire i finanziamenti in base ai costi stimati per garantire il servizio in una certa zona. Con la speranza che questo aiuti a curare i mali del trasporto pubblico locale. Che di certo necessita maggiore efficienza e una migliore programmazione. In Italia, per esempio, il coefficiente di riempimento del trasporto pubblico locale è del 22%, ovvero tre quarti dei posti sui mezzi di trasporto rimangono vuoti. Un dato che va confrontato con il 45% spagnolo il 42% francese e il 29% del Regno Unito. Sulle inefficienze gestionali influisce anche l’elevata frammentazione del settore, che secondo il report della Cassa depositi e prestiti conta più di 1.100 aziende, quasi la metà delle quali ha meno di sei dipendenti. I primi cinque operatori inoltre registrano insieme una produzione chilometrica pari al 30% del totale a livello nazionale, meno del 49% corrispondente alla media europea e del 65% raggiunto in Francia.
Da migliorare anche una serie di fattori esterni alla gestione del servizio, come la velocità commerciale, che per gli autobus italiani è di 20,2 km/h, inferiore a quella di altri paesi, come la Francia (23,7 km/h) e il Regno Unito (24 km/h). Mezzi più lenti a causa del traffico o della carenza di corsie preferenziali necessitano di un tempo maggiore per coprire la corsa. Quindi più ore lavorative e più costi.
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