Colmo delle astuzie tipiche dei fabbricanti di cinema, effettistico e urlato,
L’impostore – The Imposter – da oggi in alcune sale distribuito da
Feltrinelli Real Cinema – è il perfetto manuale su come un documentario “obiettivo” non andrebbe fatto. Dimenticate la distanza e forse anche il rispetto per l’oggetto di analisi, perché
Bart Layton decide di calare il suo sguardo dritto nel labirinto, senza spiragli di luce, confondendosi con la menzogna, negoziando con lo spettatore. L’impostore del titolo, ad una prima occhiata, è
Frédéric Bourdin, detto “il camaleonte”, ventitreenne franco-algerino che è riuscito a rubare l’identità di
Nicholas Barclay, diciassettenne texano scomparso tre anni e mezzo prima. Perché la non poco problematica famiglia americana di Nicholas avrebbe accolto a braccia aperte il nuovo venuto, nonostante le evidenti differenze fisiche e un accento decisamente sospetto?
Metà riflessione sull’ambiguità della verità e metà racconto noir in piena regola, si pensi soltanto all’entrata in scena dell’investigatore privato, quest’anomalo documentario poggia su una struttura di affascinante presa drammatica in cui i punti di vista di ciascun personaggio sono visualizzati in base ad uno stile immediatamente riconoscibile: “Il film contiene una serie di sequenze stilizzate che rendono per immagini quanto è successo in passato, il cui obiettivo – sottolinea il regista – non è dar vita a una visione della verità, o cercare di ingannare il pubblico, ma “visualizzare” la storia che gli intervistati vogliono raccontare“. A conti fatti, l’inganno non c’è davvero, così come la tendenziosità dello sguardo si rivela solo apparente. Nonostante intercetti pause “significative” alla fine di un’affermazione, enfatizzi con la musica e sottolinei con il montaggio, L’impostore – The Imposter non vuole né può dare la soluzione di un enigma che rimarrà tale: “Tutte le persone con cui abbiamo parlato sembravano avere una propria versione della verità, ognuna era al tempo stesso credibile e poco plausibile“.
L’ottimo esordio di Layton assomiglia al suo protagonista, cambia d’aspetto lentamente, assume coloriture sempre differenti fino ad una supposta svolta, agghiacciante quanto sospesa. Forse, più che un film sul relativismo della verità o sull’inconoscibilità della stessa, sembra un’inchiesta, precisa e rigorosa, sulla capacità che ha l’uomo di mentire a se stesso prima che agli altri. Da vedere.