Quando esce il remastered di un disco storico, mettiamo ad esempio il miglior disco italiano di musica indie degli ultimi vent’anni, le spaccature sono inevitabili. Da una parte la critica che storce il naso tirando in ballo le logiche commerciali o la mancanza di idee, dall’altra i fan che se ne fregano dei purismi. C’è da dire che Hai paura del buio degli Afterhours è un disco invecchiato benissimo, e il doppio cd, uscito lo scorso 11 marzo in versione remastered e reloaded, con un parterre di big della musica italiana ed internazionale (John Parish, Mark Lanegan, Vasco Brondi, Joan As Police Woman per citarne alcuni) chiamati a reinterpretare i 19 brani che lo compongono, è operazione riuscita. Una sorta di scrupoloso recupero filologico, proseguito nel tour, che toccherà Bologna il 21 marzo (Estragon), con una scaletta che rispetta l’ordine dei pezzi nell’album e vede in scena Manuel Agnelli e compagni con gli abiti di quasi vent’anni fa, in una messa in scena quasi teatrale dove assieme ad ogni abito si cambia pelle. Ne abbiamo parlato con Rodrigo D’Erasmo, violinista degli Afterhours, nel gruppo dal 2008: outsider, a livello emotivo, rispetto a questa operazione.

Come è nata l’idea del tributo?
Ci avevamo pensato qualche anno fa, in occasione dei 15 anni, ma eravamo nel bel mezzo di Padania (l’ultimo album, del 2012 ndr). Poi in un momento di maggior tranquillità ci ha appassionato l’idea del reload. Far reinterpretare da artisti da noi stimati e coi quali avevamo già collaborato quei brani significava restituire vitalità ad un disco che per una band che lo suona da quasi vent’anni è abbastanza morto, per quanto grande sia la considerazione che ne hanno i fan e la critica. Io probabilmente ho sofferto meno questa stanchezza, ma per Manuel o Giorgio (Prette) riproporre quei brani sarebbe stato un puro esercizio di stile se non ci fosse stata l’opportunità di misurarci con gli artisti ospiti del disco, il cui entusiasmo e il grande rispetto col quale si sono avvicinati ai brani hanno dato come risultato un disco di altissimo profilo.

Immagino che il tuo approccio allo spettacolo sia diverso da quello che hanno i componenti storici della band. Come lo vivi?
Credo che per chi c’era all’epoca, ritrovarsi oggi significhi rivivere una selva di flashback ed emozioni, positive o negative che siano. Per me è una cosa diversa, ma credo che a fare da collante ci sia il fil rouge della teatralità: più che un concerto lo abbiamo concepito come messa in scena, con momenti fissi che scandiscono lo spettacolo. E credo che anche il pubblico recepisca questa differenza. Partecipa diversamente, con molta più attenzione, ad esempio non vedo la solita selva di telefonini o tablet a riprendere ogni momento: questo è l’aspetto forse più interessante del nuovo live.

Credi che la distanza temporale sia inevitabilmente percepibile?
Da un lato c’è stato grande scrupolo nella cura dei dettagli, con l’utilizzo delle stesse chitarre, pedalini e amplificatori di allora, ad esempio, per riprodurre lo stesso sound. Ma se pensiamo che oggi c’è un grande ritorno delle sonorità anni Novanta non percepisco questa distanza, anzi. È presente molto di più a livello testuale, e riporto le riflessioni di Manuel: alcuni testi erano molto legati all’urgenza espressiva del momento, quando non esplicitamente rivolti a determinate persone, eventi, situazioni. È ovvio che dopo 15 anni non hai più da dire le stesse cose. In questo senso la teatralità serve anche a contestualizzare, a creare distanza emotiva.

C’è stata scelta precisa rispetto a quale brano affidare a ciascun artista? O sono stati loro a chiedervi di interpretarne uno piuttosto che un altro?
Entrambe le cose: la costruzione del puzzle è stata piuttosto complessa. In un primo momento abbiamo chiesto ai musicisti cosa avrebbero voluto suonare, poi è accaduto che si siano addirittura sovrapposti, come nel caso di Male di Miele, nell’album sia nella versione degli Afghan Whigs che in quella di Piero Pelù (come bonus track), che ha insistito per farla. O ancora per Voglio una pelle splendida, nella versione di Samuel Pagano e in quella di Daniele Silvestri come special track nella versione digitale. Credo che alcuni brani siano stati particolarmente azzeccati: Senza finestra reinterpretato da Joan As Police Woman è un piccolo miracolo, l’ha resa straordinariamente attuale e sua, ed è la cosa migliore che si possa fare con una cover.

Qual è secondo te il segreto di questo album?
Hai paura del buio è arrivato in un momento in cui serviva un album di rottura nel panorama della musica indie, e più o meno consapevolmente gli Afterhours hanno avuto in quel momento il coraggio di osare sia sul versante linguistico che su quello della sperimentazione sonora. Credo che Manuel abbia avuto un impatto potentissimo a livello di testi, molti dei quali non a caso poi sono diventati slogan generazionali. Un’eredità che oggi viene raccolta da un artista come Vasco Brondi: ogni epoca ha il suo interprete in grado di scardinare le regole, soprattutto dal punto di vista della scrittura che in Italia ha sempre avuto più peso rispetto alla ricerca musicale.

Quali sono i giovani su cui oggi “scatarrereste” su?
In realtà c’è poco da scatarrarci su. È giusto che quel brano lo abbiano cantato, e con grande piacere, i Ministri: è un grido generazionale che ha più valore per il loro pubblico, noi oggi abbiamo oggi fan dai 15 ai 50 anni e oltre, non ha più molto senso cantare quel pezzo. Anche perché in questo momento c’è da sperare di aprire un dialogo con le giovani generazioni, che vedo molto sole, prive di luoghi di aggregazione, difficili da comprendere. Ecco, penso che essere giovane oggi sia molto difficile.

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