I dati del Rapporto Anvur sullo stato del sistema universitario ci dicono che su cento iscritti a un corso di laurea triennale, solo cinquantacinque arrivano alla laurea e quattordici alla laurea magistrale. Tocca alla politica decidere gli obiettivi dell’università e le risorse per conseguirli.
Il rapporto dell’Anvur
È stato presentato stamani il primo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca redatto da Anvur, che fotografa in modo lucido e talvolta impietoso lo stato del sistema formativo terziario in Italia.
La struttura del rapporto è articolata in tre grandi sezioni: una relativa all’attività didattica, a partire dalla dotazione di risorse umane e finanziarie, una seconda relativa all’attività di ricerca, a partire dai confronti internazionali e dalla valutazione della qualità della ricerca effettuata dallo stesso Anvur per il periodo 2004-2010, cui segue una terza parte di monitoraggio della riforma in corso.
Non potendo ovviamente dare conto in un singolo articolo di tutti i temi discussi in un rapporto corposo, di oltre cinquecento pagine, accompagnato da un rapporto di sintesi di centoventi pagine, ci soffermeremo qui innanzitutto sull’analisi dei percorsi scolastici degli studenti universitari, in combinazione con la contestuale dinamica delle risorse disponibili.
Quanti si laureano?
Lo faremo a partire da una apprezzabile innovazione metodologica introdotta nel rapporto, che è l’analisi delle carriere universitarie realizzata attraverso i dati per coorte di ingresso. La figura seguente (tratta dal rapporto di sintesi) illustra chiaramente la potenzialità dell’approccio: posta pari a 100 ogni coorte di immatricolati (vengono infatti considerati qui soltanto gli immatricolati puri, tralasciando inscrizioni in età tardiva, seconde lauree, trasferimenti e altri fenomeni marginalmente discorsivi), si va a registrare lo stato finale a uno, due, tre e fino a nove anni di distanza (che è il massimo grado di copertura attuale dell’anagrafe degli studenti). Tenuto conto del fatto che col trascorrere degli anni il destino di una coorte si stabilizza quasi completamente (fatta eccezione per il percorso di studenti fuori corso che completino molto tardivamente la loro carriera), possiamo quindi riconoscere che per cento entrati nel 2003-04 (sono gli anni del boom delle iscrizioni a seguito della introduzione della riforma nota come “3+2” o come “processo di Bologna”, fortemente voluto dall’allora ministro Berlinguer) dopo nove anni (nel 2012-13) solo poco più della metà ha terminato il suo percorso triennale.
Il sistema universitario italiano è infatti noto per avere tassi di abbandono troppo elevati, specialmente quando confrontati a quelli equivalenti di altri paesi europei, nell’ordine del 40 per cento per il segmento di base. Quando si osserva una figura analoga per il segmento magistrale i tassi di abbandono si riducono al 20 per cento, ma ovviamente si cumulano ai precedenti. A partire dai dati sull’anagrafe studenti possiamo quindi ricostruire una “contabilità degli abbandoni” di questo tipo: dati 100 studenti che si iscrivono in un corso di laurea triennali, solo 55 conseguono il titolo. Di questi si iscrivono alla magistrale nel 2012 solo il 47,4 per cento (figura 18 del rapporto di sintesi), ovverosia 26 studenti. Anche in questo caso conosciamo i tassi di successo finale a un massimo di otto anni, che è pari al 57,2 per cento. Arriviamo così a quattordici laureati magistrali per cento iscritti a un corso di laurea triennale. Difficile sostenere che il sistema universitario abbia perso il suo grado di selettività sociale di cui molti commentatori e politici rievocavano il ritorno.
Inefficienza o selezione sociale?
Inefficienza o selezione sociale ? Questo sembra essere il dilemma in cui si dibatte l’università italiana, per la quale manca un disegno strategico complessivo.
I dati del rapporto ci forniscono almeno due ordini di informazioni al riguardo: vi è un leggero trend migliorativo, nonostante le risorse messe a disposizione si siano vistosamente ridotte. Sul primo aspetto si osservi la figura seguente, sempre tratta dall’analisi delle carriere costruita a partire dall’anagrafe studenti. Si nota come i percorsi siano migliorati nel corso dell’ultimo decennio: se tra gli iscritti nel 2003-4 arrivava alla laurea triennale dopo sei anni il 47 per cento, tra gli iscritti del 2006-7 la stessa percentuale è salita al 50 per cento e plausibilmente arriverà al 52-53 per cento nelle coorti più recenti. Un miglioramento medio nazionale di quasi l’1 per cento all’anno non è un fatto trascurabile.
Particolarmente apprezzabile e sorprendente se si considera che si tratta di un miglioramento ottenuto in una fase di riduzione delle risorse disponibili. Comunque lo si voglia misurare (in termini di numero dei docenti, di spesa per il personale, di rapporto studenti/docenti, di finanziamento del governo centrale, cui fa riferimento la figura seguente), l’università italiana ha visto ridursi le risorse a partire dal 2008 di un ordine compreso tra il 14 e il 20 per cento, a seconda che si utilizzino valori nominali o reali.
Come si possano ottenere miglioramenti di performance (in termini di maggior inclusività studentesca) in presenza di riduzione delle risorse, invecchiamento della forza lavoro e precarizzazione delle nuove assunzioni, può costituire un interessante case study dal punto di vista organizzativo. Si possono tuttavia avanzare alcune ipotesi esplicative al riguardo. La prima è quella delle riserve accumulate in passato. Così come le imprese fanno fronte alle fasi di recessione utilizzando fondi di riserva accumulati negli anni di espansione, anche le università potrebbero aver accumulato risorse (in particolare, personale docente) nei primi anni del decennio precedente, durante l’esplosione delle iscrizioni, e ora le utilizzerebbero in modo più efficiente. Deporrebbero a favore di tale ipotesi l’aumentato carico didattico in termini di ore di insegnamento frontale, la riduzione delle sedi e dei corsi universitari.
Una seconda ipotesi, non necessariamente alternativa alla precedente, guarda invece all’incremento di selettività nei confronti degli studenti. Se aumenta la selezione all’ingresso, la qualità media degli immatricolati si accresce, e si riduce di conseguenza la probabilità di abbandono. Potrebbero essere indici di questo cambiamento i dati sul calo delle iscrizioni, che colpiscono in modo differenziato aree disciplinari e sedi universitarie.
Una terza ipotesi considera infine i comportamenti degli studenti e delle loro famiglie, che finanziano i loro percorsi di studio. In presenza di recessione e calo dei redditi disponibili, di aumento dei costi di iscrizione e di riduzione del sostegno fornito dai fondi allocati per il diritto allo studio, l’investimento in un corso universitario diventa necessariamente più oculato, ma per questa ragione anche più motivato, riducendosi così lo sbandamento che caratterizza molti studenti al loro primo anno di iscrizione.
Ognuna di queste spiegazioni ha una sua plausibilità. Non tocca ad Anvur scegliere quale sposare. Tocca piuttosto alla politica decidere quale futuro desidera per il sistema universitario italiano, in termini di obiettivi conseguibili con risorse adeguate. I dati ci dicono che con quello che attualmente si spende, i risultati sono poco incoraggianti sul piano del numero finale di laureati. I Governi che si sono alternati in questi anni hanno espresso opinioni diverse sul loro grado di desiderabilità. Ora, tocca a quello attualmente in carica fare la sua scelta. Ad Anvur va il merito di avere quantificato le alternative sul terreno.