Su Repubblica di domenica 9 marzo si è parlato di cinema low-budget con esempi di film a basso costo relativi a documentari e opere di finzione di questi ultimi anni. La forbice, ampia — tra gli altri Stop the pounding heart di Roberto Minervini, The square di Jehane Noujaim — comprende il documentario dell’amico Massimo Alì Mohammad, Mignon, costato “appena” 9 mila euro, fino all’opera prima dei fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio (2012), Sette opere di Misericordia, che ne è costata 700 mila. Nell’articolo, il suo autore, Cristiano Governa, tenta di fare il punto sulle difficoltà del “fare cinema”, intervistando gli autori; disposti perfino, come nel caso del romano Ciro de Caro (Spaghetti Story), a vendere la propria auto per pagarsi il film. L’articolo affronta bene la questione ma la domanda, molto più pragmatica, a cui — personalmente — non ho mai trovato risposta è: fino a quanto può costare un film documentario o di fiction, in termini produttivi, per essere considerato low-budget? Per dirla con un termine più in uso: per essere indipendente?
La domanda è puntuale, perché vorrei capirlo anch’io una volta per tutte. Mi viene sempre in mente il produttore Gianluca Arcopinto riguardo al cinema indipendente che preferisce definire autonomo, spiegandone così le ragioni: un film indipendente è quello che non dipende da nessuno, non è (solo) una faccenda di costi. Oggi si parla di digitale in tutte le salse, di opportunità legate al digitale (in tutte le salse): vero. Le possibilità sono concrete, sia nella produzione che nella distribuzione; i risparmi, in parte, reali. Il punto è però: sta davvero nel — risparmio — digitale, nella multi-programmazione delle sale, nel girare un film tra i 9 e i 700 mila euro o nell’insieme di questi elementi, la spinta per fare emergere un giovane apprendista? Oltreché farlo girare, scrivere, produrre piccole cose che significano esperienza sì, non mestiere. La valutazione è sul cinema ma si espande a macchia d’olio verso quei settori dell’arte e, più in generale, delle professioni intellettuali a cui il mercato fatica a trovare risposta.
Ettore Scola, pochi giorni fa in corteo a Roma per difendere Cinecittà, ci viene incontro con il suo sapere e il raffronto con gli anni della giovinezza: “Ai miei tempi non c’era internet, d’accordo, ma tutti i giornali avevano una pagina umoristica. Fu così che io a sedici anni trovai subito impiego, al Marc’Aurelio. Oggi dove va un ragazzo con i suoi disegni? A chi li mostra? […] È come se i linguaggi si fossero moltiplicati, ma la voce per esprimerli fosse stata strozzata. Del resto, in un paese come il nostro, ma perché mai dovrebbe andare bene il cinema? Si possono anche fare i film a costo zero, o quasi, ma il cinema ha bisogno di un’industria — che non c’è — e di un mercato — che non c’è — in grado di rischiare con i giovani. Esistono le eccezioni ma il cinquanta per cento dei film italiani non esce, non arriva al pubblico”. Metz e Marchesi presero così il giovane disegnatore (questi episodi sono ben descritti nell’ultimo documentario di Scola, Che strano chiamarsi Federico) per fargli iniziare la gavetta all’interno della storica rivista di satira.
Trovo che il problema, mercato e industria a parte, stia essenzialmente qui: la difficoltà di trovare ascolto, su più livelli. Condizione assolutamente paradossale se si pensa alla moltitudine dei linguaggi, dei canali, degli strumenti a nostra disposizione. Una voce strozzata, come dice Scola, ecco la verità. Arrivare a tutti, ma allo stesso tempo, non arrivare a nessuno. Intendo arrivare realmente, come se il suono prodotto dalle nostre corde vocali sfumasse nell’ultimo tratto. Perché per un giovane regista, così come per un giovane disegnatore, scrittore esordiente o musicista, il problema rimane quello legato alla visibilità del proprio lavoro. Lo so, è una visione gattopardiana dell’argomento, sarà perché l’ho rivisto di recente nella sua versione restaurata ma, da un po’, non riesco a non pensare al potere prefigurativo che quell’opera possiede, ancora oggi, sulla nostra società.