“Dove troveremo tutto il pane/Per sfamare tanta gente?” Questi versi di una famosa canzone scout tornano alla mente pensando allo scandalo della fame che affligge 2000 milioni di persone, sparse in Asia, Africa, Sud America, quel nuovo “terzo mondo” che continua ad essere povero, in gran parte poverissimo, afflitto da malattie, mancanza di abitazioni decenti, di elettricità, di gabinetti e fognature e di acqua pulita. Eppure sono gli abitanti di questo terzo mondo che producono molte delle derrate agricole che fanno opulenti le mense dei 2000 milioni di abitanti del “primo mondo” e forniscono il cibo agli altri 3000 milioni di abitanti dei paesi emergenti di un “secondo mondo” – Cina, India, Brasile, Sud est asiatico – sempre più avidi di benessere anche alimentare. La risposta è urgente, come dimostra il fatto che l’imminente Expo 2015, l’esposizione universale di Milano dell’anno venturo, ha scelto come tema proprio: “Nutrire il pianeta”.
Oltre la metà del fabbisogno alimentare degli esseri umani è ottenuto dai cereali – grano, mais, riso e cereali “minori” come orzo, avena, miglio – la cui produzione mondiale nel 2012 è stata di circa 2500 milioni di tonnellate, corrispondenti a circa 350 chili all’anno a testa. Il “contenuto” energetico e proteico dei cereali disponibili per persona ogni anno, “sembrerebbe” circa una volta e mezzo superiore al fabbisogno alimentare medio. “Sembrerebbe”, perché nella distribuzione di tali alimenti esistono insostenibili differenze.
Ogni abitante degli Stati Uniti e dell’Europa “consuma”, in media, circa 1000 chili di cereali all’anno, di cui circa 300 chili come alimenti diretti – pane, pasta, dolciumi, eccetera – e circa 700 kg per l’alimentazione del bestiame che fornisce carne, uova, latte e latticini, alimenti che possiedono le proteine di buona qualità necessarie per integrare le proteine vegetali che sono biologicamente “più povere”: però un chilo di carne “costa” – richiede per l’alimentazione dell’animale da macellare – circa 10 chili di cereali.
Ogni abitante dei paesi africani e asiatici poveri ha a disposizione in media duecento chili di cereali, tutti utilizzati per il consumo diretto, in molti casi appena sufficienti per la sopravvivenza. La situazione però è ancora più grave. Nei paesi arretrati una parte dei cereali va perduta per l’attacco dei parassiti, per la mancanza di sistemi di conservazione e immagazzinamento. Inoltre ormai circa il 15 per cento della produzione mondiale di cereali è destinata alla produzione di alcol etilico carburante (il cosiddetto bioetanolo), in sostituzione della benzina, al punto da far dire che i paesi industriali tolgono il mais di bocca ai contadini poveri sudamericani per far correre i loro rombanti Suv.
Le grandi industrie chimiche propongono come soluzione l’impiego di sementi geneticamente modificate (Ogm) che assicurano grandi profitti a poche multinazionali e promettono più abbondanti raccolti e migliori difese contro l’attacco dei parassiti. A parte considerazioni di sicurezza biologica per i consumatori e di privilegi monopolistici, non è detto affatto che la lotta alla fame passi attraverso questa soluzione; anche le promesse, anni fa, della “rivoluzione verde”, basata su sementi ad alta produzione per ettaro, non sono state mantenute. E non ci si può neanche illudere che possa aumentare di molto la produzione agricola perché più si produce da ogni unità di superficie del terreno, più il terreno stesso viene impoverito delle sostanze nutritive (potassio, azoto, fosforo) delle piante per cui nuove coltivazioni richiedono crescenti aggiunte di concimi.
Probabilmente la salvezza va cercata, da una parte, in una revisione dei consumi dei paesi ricchi, in una “guerra allo spreco”, di cui parla, inascoltato, il Papa; dall’altra parte in un grande sforzo di ricerca tecnico-scientifica che aiuti i paesi emergenti a utilizzare meglio e a valorizzare le risorse agricole locali. Molti prodotti alimentari utilizzati per secoli nel Sud del mondo sono stati abbandonati per aderire alle mode di consumi esportate dai paesi industrializzati; molti prodotti agricoli dell’Africa e dell’America latina potrebbero essere meglio conservati, protetti dai parassiti, coltivati al posto delle monocolture che sono state imposte dal Nord industriale. Una chimica, biologia e ingegneria dell’amore per il prossimo, della solidarietà per coloro che hanno fame. E, nel mondo, sono ancora tanti, troppi.
Di Giorgio Nebbia