Dell’outing di Violetta Bellocchio ne ho sentito parlare subito, all’indomani dell
’intervista a Le Invasioni, sui social network ad esempio sembrava non ci fosse argomento migliore. E in effetti me l’ero persa e con disappunto.
L’outing sul proprio alcolismo è una grande dimostrazione di umiltà oppure di coraggio, il che è uguale tante volte. E’ la prima cosa che devi fare quando decidi di smettere, sappiamo che ogni dipendenza – che finisce in una terapia di solito contenitiva – pretende l’outing come una condizione assoluta.
Poi l’intervista l’ho ascoltata e vista, ripescando nell’archivio di La7. Violetta presentava il suo ultimo libro “Il corpo non dimentica” (Mondadori), così ha raccontato dei tre anni di dipendenza, dai suoi 25 ai suoi 28
anni. Esperienza conclusa. Ne è uscita e non so ma è un fatto enorme, perché l’alcolismo è una storia lunga nei grandi numeri e non di rado con un fine pena mai a implicita promessa. Il punto non è tanto questo, sono felice per Violetta.
Eppure mi interessa tornare a una questione:
la letteratura si nutre delle fragilità e soprattutto non mente. Di recente parlavo con un amico scrittore, a un certo punto dico: ma tu conosci scrittori, gente che scrive insomma, che in fondo non siano dei disadattati? Io no, ho ammesso. E più forziamo sulle nostre fragilità più le cose ci riescono. L’esser compiuti è il desiderio di molti, il mio lo è senz’altro, so che difficilmente raggiungerò quel traguardo, saranno le mie defezioni a precedermi, fino all’ultimo, però so che tutto comincia da lì, che la letteratura comincia da lì, da una defezione, da un invito mal riposto, mancato.
Allora quando guardavo l’intervista di Violetta pensavo: brava, il dolore ti premierà. E’ orribile e nello stesso tempo è giusto, inevitabile. Parlo per me, si intende. Il mio primo romanzo evitai di farlo leggere persino a mio padre; ogni presentazione era un dente da levare. La mia vergogna era ormai uno status, stavo in slip davanti al mondo, et voilà. Ma la letteratura non mente e si nutre – nostro malgrado, che piaccia o meno – di tutte le debolezze. Quando uno scrittore cerca la propria storia o pubblica finalmente il “suo” romanzo, è l’ora che ha realizzato l’assunto, trovando la sua spina conficcata nel fianco: ed è da lì che tutto comincia e si compie e si conclude. In questo senso, non vorrei mai tradire l’assunto che per me è diventato un dogma. E’ la ragione per cui la poetica di un autore si traduce in ossessione. Diffido casomai di chi non ne detiene almeno una. Mi
considero un regista che gira sempre lo stesso film.
Qualcuno mi ha chiesto: e il nuovo romanzo? Cosa scriverai stavolta? Scriverei delle assenze, se mi è concesso, ché son quel che contano, assenze o debolezze, chiamatele come vi pare.