Non si capisce lo scandalo per una cosa elementare detta da Mauro Moretti, ad di Ferrovie, quando ha rivendicato la liceità del suo stipendio (850mila euro), semmai definendolo fuori mercato (al ribasso). Essere consapevoli del proprio valore economico – in una parola i soldi che guadagniamo, ovviamente rapportandoli ai risultati ottenuti – è alla base della convivenza democratica tra lo Stato e i suoi manager. Anzi, alla convivenza democratica tout court.
I soldi sono un elemento della nostra autostima. Sotto questo aspetto, Moretti è pienamente nella ragione. Dove ha sbagliato è nel dirsi un manager in regime di concorrenza, questa è una bubbola neanche tanto divertente, trattandosi di Ferrovie. Poi nel minacciare di lasciare la poltrona, non sia mai che lo si prenda in parola. Poi, nel dire quell’altra stupidata che guadagna meno di Santoro (se è vero, cosa ci sarebbe di strano?). Ma sull’assunto, dubbi non ve ne sono.
In una economia liberale, lo stipendio lo si patteggia in base alle capacità. Questa è la rotta polare nel settore privato, dove ci si contendono i migliori cervelli su piazza. Più sei conteso, almeno in linea teorica, più dovresti valere. Ma qual è nel pubblico il valore che non è contemplato nel privato? Il senso delle istituzioni. Il peso delle istituzioni. Sono valori primari che compongono un senso di responsabilità non solo nei confronti degli azionisti della società che si rappresenta, ma anche, e si direbbe soprattutto, nei confronti della collettività. E se la collettività è in grave affanno economico, è possibile (e probabilmente doveroso) che lo Stato debba chiedere ai suoi manager un sacrificio di ordine economico.
Tutti quelli che se la prendono con Moretti perché difende il suo stipendio, il valore intrinseco dei soldi che guadagna, sbagliano. Non è lui il primattore della questione. Il primattore è il presidente del Consiglio, al quale tocca l’onere di una decisione dopo lungo e ponderato esame della situazione. Se lui ritiene davvero che un manager pubblico non possa guadagnare più del presidente della Repubblica (qualcosa meno di trecentomila euro) non si dilunghi in chiacchiere e firmi un decreto. La palla passerà nel campo dei vari Moretti, Scaroni, Ciucci, Conti, ecc, ai quali toccherà la decisione solenne: accettare o togliere il disturbo, come ha detto polemicamente il ministro Lupi (“Se non è contento, Moretti se ne può tranquillamente andare alla ferrovie tedesche”). Finita la questione.
Solo che la riforma va fatta in tempi brevissimi. C’è una marea di nomine in ballo e il problema degli emolumenti dev’essere risolto “prima” di scegliere chicchessia, proprio per evitare incomprensioni. Forse è anche una fortuna, Renzi ha il coltello dalla parte del manico: vuoi il posto? Queste le condizioni.
Lasciamo perdere, però, gli ipocriti parallelismi, per cui siccome il presidentissimo della Banca Centrale guadagna meno di Moretti, allora costui dovrebbe sentirsi in colpa. Sono tutti paraventi di maniera. Gli si dica semplicemente: caro presidente di Ferrovie, la condizione economica impone a tutti uno scatto di dignità, lei lo vuole fare insieme a noi?
Peraltro, non più tardi di qualche giorno fa questa stessa domanda è stata fatta dal comune di Roma a Massimiliano Fuksas a proposito della sua Nuvola e della lievitazioni dei costi. Gli hanno chiesto: avendo tu già guadagnato una ventina di milioni di euro, possiamo chiederti di lavorare gratis un anno come direttore artistico visto che siamo tutti negli stracci? Lui li ha guardati e ha risposto serenamente: “No”. Controrisposta: grazie, lei da questo momento non è più il direttore artistico.