2.102.969 persone, l’89,10% dei ‘votanti’, si sono espresse a favore dell’indipendenza del Veneto. I dati sono tutti da verificare – o forse addirittura inverificabili, trattandosi di una consultazione non ufficiale, addirittura di un ‘sondaggio’, come ha dichiarato il governatore Luca Zaia. Ciononostante, il significato simbolico della votazione è considerevole e – anche grazie all’amplificazione mediatica che ha saputo suscitare – destinato far discutere.
La memoria corre inevitabilmente al 25 maggio 1997, quando si tenne il Referendum per l’indipendenza della Padania indetto dalla Lega Nord di Umberto Bossi. Cui seguì, a pochi mesi di distanza (26 ottobre), l’elezione del Parlamento Padano. Sempre sul piano simbolico, vale la pena ricordare anche la prima Festa dei popoli padani (15 settembre 1996), in cui venne inaugurato il rito – per la verità piuttosto comico – dell’ampolla per il quale l’acqua del Po, prelevata dalla fonte di Pian del Re, veniva ‘celticamente’ vuotata da Riva dei sette martiri a Venezia. Erano gli anni del progetto secessionista, poi edulcoratosi nel gergo ‘romanocentrico’ della devolution il cui disegno è stato però rigettato dal referendum costituzionale del 2006. Per quanto concerne la modificazione in senso federalista dell’architettura dello Stato, i passi compiuti sono infatti riassumibili nei seguenti: 1. La legge Bassanini (15 marzo 1997, n. 59) sul federalismo amministrativo, approvata dal primo Governo Prodi; 2. La riforma costituzionale del 2001 (poi confermata dal referendum del 7 ottobre 2001), realizzata anch’essa dalla coalizione di centrosinistra (sulla base di un testo approvato dalla Commissione bicamerale presieduta da D’Alema), che, stabilite le materie di sola competenza dello Stato centrale e quelle di competenza concorrente sia dello Stato che delle Regioni, lasciava alle Regioni la competenza ‘residuale’ sul ‘rimanente’ (il cosiddetto federalismo legislativo).
In sintesi, se ne possono trarre almeno due evidenze: 1. Sul piano legislativo, quanto alla questione federalista il contributo della Lega Nord si è rivelato essenzialmente nullo, visto che: 2. Le uniche riforme in tal senso – seppur discutibili e certamente incomplete – sono state approvate da governi di centrosinistra. Il che autorizza a sostenere che, concretamente, vent’anni di ‘leghismo’ si son risolti in un nulla di fatto, il solito buco nell’acqua dove, al sasso protervo dell’incompetenza ha fatto seguito dapprima il ben noto sciabordio folklorico-celoduristico, poi lo squallido disfacimento di una cricca di Lanzichenecchi che – tra trote, belsiti, cerchi magici e mutande verdi – ha dimostrato d’essere alla pari con i peggiori saccheggiatori capitolini.
Non è un caso, allora, che il movimento indipendentista capeggiato da Busato salga oggi alla ribalta delle cronache. Assistiamo con esso alla rottamazione del leghismo: acclarato il fallimento politico del Carroccio, la pulsione secessionista, amministrata per un ventennio dalla Lega, si ripropone sotto altra forma, attivando nuovi soggetti e capeggiata da altri protagonisti (in qualche caso anche leghisti delusi, come lo stesso Busato). Soltanto pochi anni fa un’iniziativa di questo genere sarebbe senz’altro stata monopolizzata dai Ras del Carroccio, gli stessi che oggi si trovano a rincorrere. Ma stavolta sembra proprio che manchi loro il fiato.