A vincere la classica di primavera la squadra Katusha. Gioiellino da 30 milioni di euro della Russian global cycling project, dietro il quale ci sono i colossi Gazprom e Rostechnologij e gli oligarchi della ristretta cerchia putiniana
I russi dopo aver conquistato la Crimea si sono pigliati la Milano-Sanremo. Non hanno usato la flotta, come a Sebastopoli, né le forze speciali come nell’assalto alla roccaforte di Belbek. Si sono limitati a dislocare sul percorso della classica di primavera la squadra Katusha, e otto ciclisti: tre russi (Pavel Brutt, Vladimir Gusev e Alexandr Kolobnev); il bielorusso Aleksandr Kuchynski; il lettone Gatis Smukulis; lo spagnolo Angel Vicioso Arcos; l’italiano Luca Paolini; il norvegese Alexander Kristoff. Il team è guidato dall’ex campione russo Vjaceslav Ekimov che corse per sette stagioni con Lance Armstrong. Tuttavia, quel che conta nello sport – come nella geopolitica – è il risultato.
La Katusha è un progetto sostenuto dalla fondazione Russian global cycling project, sponsorizzato dalla banca Tinkoff credit systems, quotata alla City londinese. Ci sono dietro anche Gazprom e Rostechnologij. Un ruolo importante ha pure Itera di Rosneft, che è il gruppo petrolifero russo più importante, quello che sta comprando il 13 per cento della Pirelli. Non solo: tutti questi attori economici ruotano attorno al Cremlino, fanno cioè parte della ristretta cerchia putiniana. In termini di impegno finanziario, il team ciclistico Katusha dispone di un oligarchico budget, nel senso che è piuttosto consistente, circa 30 milioni di euro. In un periodo di vacche magre e di bilanci tagliati, l’impegno della Katusha è ben visto dai vertici dell’Uci, l’Unione ciclistica internazionale. E’ l’ennesimo esempio di come da un lato si parla di sanzioni contro la Russia che invade la Crimea, e poi ci si fanno assieme affari e competizioni sportive, fingendo che non sia successo nulla. Per la cronaca, in gara c’erano due corridori ucraini: il bravo Yaroslav Popovich e Andry Grivko. Hanno perso la loro battaglia.
A vincere, materialmente, è stato il biondo norvegese Kristoff, il cui nome è un destino: gli è scappato il miracolo di far sua la Milano-Sanremo numero 105, una “classica” che consacra i ciclisti nel pantheon delle due ruote. Volendo giocare con le parole, notiamo che Kristoff è arrivato primo in una città che vanta il nome di un santo, e tuttavia è un santo che non c’è, poiché il nome vero sarebbe Romolo, vescovo di Genova, festeggiato il 13 ottobre. Inoltre, Sanremo fu meta di un forte flusso turistico russo, al tempo degli zar e della Belle Epoque: la città dei fiori vanta una bellissima chiesa ortodossa. Quanto a Kristoff, prima della Sanremo aveva un dignitoso ma non esaltante palmarès: terzo ai Giochi di Londra, qualche successo però di scarso rilievo, il più importante ottenuto l’ultimo giorno del Giro di Svizzera dello scorso anno. Un ragazzo tosto di 26 anni, con un figlio di due: “Mi sposerò ad ottobre”, ha detto in conferenza stampa, “la mia è una famiglia felice”. Parla un ottimo inglese, la madre è medico, il padre, divorziato, vive in Belgio, a Waterloo: “Ho tanti fratelli e sorelle, forse troppi…”, scherza il giovanotto, “questa vittoria certamente segnerà la mia carriera in meglio. Non che mi possa lamentare, alla Katusha ho già il mio ruolo. Sono bello contento così”.
Se nel 2012, alla sua prima Milano-Sanremo, era arrivato 112esimo, dunque nello scantinato della corsa, già lo scorso anno lo avevamo ammirato piombare ottavo sotto lo striscione dell’arrivo, quindi intrufolarsi nell’élite dei cacciatori di “classiche”, allora guidata dal tedesco Gerald Ciolek che aveva regolato allo sprint Peter Sagan e Fabian Cancellara. Colpisce, semmai, come Kristoff abbia dominato perentoriamente il volatone sul lungomare Italo Calvino, roba da Cosmicomiche. Un allungo agli ultimi cento metri dava l’impressione che avesse ricevuto la formidabile spinta di un invisibile arcangelo, e in un amen aveva guadagnato una, due, sino a tre biciclette di vantaggio. Dietro, la rabbia e l’impotenza di Cancellara, il grande sconfitto, di Mark Cavendish, altro battuto di lusso; soprattutto l’avvilimento del favoritissimo Peter Sagan, il favorito della vigilia. Felice, invece, l’inglese Ben Swift, il terzo: a dimostrazione che la corsa è stata contrassegnata da misteriose coincidenze che poco hanno a che fare con i pedali. Swif-Calvino vi dirà pur qualcosa… sul viale non ancora del tramonto di questa burrascosa domenica 23 marzo, si evocano ardite connessioni letterarie, lo Swift che corre per la squadra è nato a novembre come il creatore di Gulliver e, infine, l’ennesimo gioco incrociato dei destini: Ben ha corso per la Katusha che lo aveva ingaggiato nel 2009.
Quanto al nostro ciclismo, qualche scintilla ma non molto altro. Puntuale è arrivato lo scatto dimostrativo di Vincenzo Nibali sulla Cipressa, che fa il vuoto dietro di sé sulle rampe della salita che in passato ha deciso la corsa, ma si svuota rapidamente d’energie, e viene ripreso ineluttabilmente a 8900 metri dal traguardo. Da solo era un’impresa quasi impossibile. Sonny Colbrelli alla fine risulta essere il migliore, sesto, dopo aver illuso per qualche secondo la parrocchia della bici tricolore con un allungo troppo prematuro, a quasi tre chilometri dallo striscione finale. Bravo mi è parso il gran lavoro del barbuto Luca Paolini, che ha sfilacciato nel finalissimo il plotoncino degli sprinters, favorendo il compagno di squadra Kristoff che ha preso il largo a sinistra mentre Paolini scompigliava i rivali: “Luca è stato fortissimo. Mi ha sempre aiutato. Gli ho detto soltanto: ci sono. Luca ha rintuzzato tutti gli attacchi, aveva la forza per farlo. Io quella forza non ce l’ho, ma sono stato in grado di restare sempre nel gruppo…”.
Le volate sono esercizi di altissima strategia, e di feroci esecuzioni. Nessuna pietà per gli Ulzana del manubrio: Kristoff, dicono gli esperti, ha talento e potenza, e freddezza. Qualità fondamentali in gare sfiancanti come la Sanremo. Dopo quasi trecento chilometri sferzati dalla pioggia e dal vento, conditi dal freddo e da una media piuttosto elevata (oltre 42 all’ora), chi decide è infatti l’usura del tempo (sei ore 55 minuti e 56 secondi il crono del vincitore), ossia la soglia della resistenza. La fatica diventa veleno, micidiale dopo 250 km di corsa. Ogni chilometro in più diventa pura sofferenza. I campioni sanno limitarne gli effetti devastanti. Il libro d’oro della Sanremo è il riassunto glorioso della storia del ciclismo mondiale. A cominciare dal leggendario Lucien Petit Breton, il primo trionfatore nel remoto 1907: fu il primo a vincere due volte di seguito il Tour de France, il primo proprio nel 1907. Troviamo Luigi Ganna, mitico conquistatore del primo Giro d’Italia. E poi Costante Girardengo, Alfredo Binda, Learco Guerra, Gino Bartali, Fausto Coppi, Rik Van Steembregen, Rik Van looy, Miguel Poblet, Raymond Poulidor che non riuscì mai a vincere un Tour…e il cannibale Eddy Merckx, sette volte primo; Felice Gimondi, Giuseppe Saronni, Francesco Moser, Sean Kelly, Laurent Fignon, Gianni Bugno, persino Claudio Chiappucci, Maurizio Fondriest, il possente Erik Zabel, Paolo Bettini, Oscar Freire, Alessandro Petaccchi, Mario Cipollini, Cancellara, Cxavendish… nomi che vogliono dire titoli mondiali, Tour, Giri d’Italia, e il racconto di uno sport che resta popolare, nonostante il flagello del doping.