Citando il Kosovo, dopo la vittoria schiacciante dei sì al referendum in cui si chiedeva agli abitanti della Penisola di voler far parte della Russia, Putin ha lanciato l’assist perfetto ai movimenti separatisti di mezza Europa: dalla Catalogna alla Scozia (che va al voto il 18 settembre), fino all’Irlanda del Nord, passando per le Fiandre. Anche in Italia c'è chi vorrebbe fare del Veneto una Repubblica a sé stante
Il popolo di Crimea, secondo il presidente russo Vladimir Putin, si è comportato in base alla “regola dell’autodeterminazione dei popoli”. Lo ha detto nel suo discorso al Parlamento di Mosca, il giorno dopo aver firmato il decreto che riconosce l’indipendenza della penisola ucraina. Non è cosa nuova. L’altro precedente, continuava Putin davanti a una platea entusiasta, si è avuto quando “l’Occidente ha riconosciuto legittimo il distacco del Kosovo dalla Serbia, dicendo che non c’era bisogno di alcun permesso dal potere centrale”. Il leader russo ha accusato gli Usa di usare la “legge del più forte” e di aver ignorato le risoluzioni dell’Onu. Nel 2008, infatti, Pristina dichiarò unilateralmente la sua secessione dalla Serbia con una risoluzione votata dal suo parlamento provvisorio: esattamente come oggi la Crimea si sente russa, ai tempi il Kosovo – prevalentemente albanese -voleva la separazione dalla Serbia. Non servì alcuna consultazione popolare, il voto dei deputati fu risolutivo.
Il Kosovo quindi non è la Crimea. Se oggi Putin porta come esempio la crisi dei Balcani per sottolineare l’ipocrisia della comunità internazionale, dovrebbe ricordarsi di quando, insieme alla Cina, si oppose fermamente alla secessione del Kosovo appoggiando i tentativi serbi di non concedere alcuna sovranità a Pristina, a differenza di Europa e Stati Uniti che riconobbero immediatamente la sua autonomia. Tuttavia, facendo leva sul principio di autodeterminazione dei popoli, Putin ha lanciato l’assist perfetto ai movimenti separatisti di mezza Europa: dal meridione catalano al settentrione scozzese, passando per l’Irlanda, le Fiandre giù fino all’Italia. Così, proprio pochi mesi dopo le elezioni europee del prossimo maggio, l’Europa si troverà a dover gestire le spinte separatiste di alcune sue zone strategiche.
Catalogna, la Crimea spagnola
“L’ultimo trucco di Mas: portare la gente in strada come in Ucraina”. Il titolo in prima pagina è del quotidiano spagnolo La Razón. I mass media di Madrid hanno guardato al referendum in Crimea con apprensione. Esiste infatti un “parallelismo” tra il voto in Crimea e il referendum del prossimo 9 novembre sull’autonomia catalana. Almeno secondo il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel García-Margallo. Gli articoli della Costituzione ucraina “sono uguali alle leggi della Costituzione spagnola”. Insomma per García-Margallo il parallelismo tra Catalogna è Crimea è “assoluto”. Artu Mas, presidente della Catalogna, non si è scomposto: ha allontanato i parallelismi e ha garantito che i catalani sono come il biblico David che riuscirà a vincere Golia con “astuzia, determinazione e volontà”. Poi però Mas ha spiegato di non scartare “una dichiarazione unilaterale d’indipendenza”, se quella che lui stesso chiama “via britannica” – l’accordo tra inglesi e scozzesi per un referendum simile – sarà ancora ostacolata da Madrid.
Se ce la fa Barcellona, ce la fa anche Venezia
“Vuoi tu che il Veneto diventi una Repubblica federale indipendente e sovrana?”. La domanda è semplice e diretta, valida fino al 21 marzo. In soli tre giorni ha già raccolto 1 milione e 300mila voti: il referendum per l’indipendenza del Veneto, promosso da Plebiscito.eu, ha superato le più rosee aspettative degli organizzatori. Tant’è che i riflettori della stampa mondiale, non solo italiana, si sono accesi su Gianluca Busato, che ha così commentato i risultati: “L’obiettivo di due milioni di veneti che votano il referendum di indipendenza del Veneto è raggiungibile”. Il governatore Luca Zaia ha preso come fonte d’ispirazione quello che accade in Catalogna: “Dobbiamo capire se sull’indipendenza riescono ad aprirci un varco. La loro deadline è il 9 novembre 2014. Se l’indipendenza la ottiene Barcellona, seguendo il loro metodo potrebbe ottenerla anche Venezia”.
Scozia libera, sotto la regina Elisabetta
A nord del vallo di Adriano è già tutto deciso. Il leader dello Scottish national party, Alex Salmond, ha trovato l’accordo con il premier britannico David Cameron riguardo l’indipendenza della Scozia: il 18 settembre 2014 verrà indetto un referendum per la secessione dal Regno Unito. Gli scozzesi andranno al voto per rispondere a un’unica domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. I sondaggi dicono che perderanno. Ma da Edimburgo potrebbero arrivare delle sorprese. Secondo il progetto di Salmond, la Scozia diverrebbe nei fatti una nazione autonoma ma parte del Commonwealth, con governo indipendente sotto l’egida della regina Elisabetta. Il partito nazionalista sostiene che le risorse di petrolio nel mare del Nord, l’industria locale agricola, la pesca e il whisky consentono a una Scozia indipendente di essere prospera in termini economici. Altri partiti di Edimburgo e il governo britannico invece pensano che la secessione sia svantaggiosa per entrambi i Paesi.
Referendum anche in Irlanda del Nord
Il movimento indipendentista irlandese, il Sinn Fein, vuole realizzare un referendum per decidere se continuare a far parte del Regno Unito o unirsi al resto dell’isola. Il numero due del partito, Martin McGuinness, ritiene che il Nord sia pronto per un referendum nel 2016, proprio in coincidenza con il centenario della rivolta di Pasqua, la sanguinosa ribellione che ha portato alla guerra d’indipendenza contro l’Inghilterra.
Guerra tra Fiandre e Sud francofono
Anche in Belgio si respira aria di scissione. La trasformazione delle Fiandre in uno stato indipendente e sovrano è l’obiettivo della Nieuw vlaamse alliantie (Nuova alleanza fiamminga), il partito che ha trionfato alle ultime elezioni del 2010, dopo la crisi del governo, accanto agli indipendentisti fiamminghi di destra del Vlaams Belang, fautori della separazione dai valloni. Motivazione etno-culturale ed economica, perché spesso le regioni più ricche spingono per sganciarsi dal resto del Paese. Secondo i sondaggi però solo il 30 per cento degli abitanti delle Fiandre vorrebbe una piena indipendenza.