Le elezioni in Francia confermano una realtà già nota: quando la sinistra al governo fa politiche di destra e si presenta come la continuazione di quest’ultima – per usare una definizione francese, la sinistra “molle” – è l’estrema destra che vince. Era già successo nel 2002 quando il premier Lionel Jospin fu estromesso dal ballottaggio delle presidenziali dal padre di Marine Le Pen. Si era poi verificato durante la stagione di Mitterand che, va ricordato, costituisce la prima vera incubazione della crescita del Front National. Succede ovunque in Europa e il fatto che l’estrema destra in Francia, ad esempio, vincendo a Henin Beaumont al primo turno, rivendichi la rappresentanza “della classe operaia francese” – come ha fatto il deputato Bruno Gollnisch l’altra sera in tv – spiega meglio di molte analisi l’impatto sociale di questa tornata elettorale.

Il movimento fondato da Jean-Marie Le Pen continua a rappresentare forti continuità con il razzismo e spesso l’antisemitismo delle origini. Ma quel voto, ormai, ha una caratteristica più ampia che condizionerà moltissimo la scena politica francese ed europea. Dalla Francia, infatti, si rafforza i l nuovo “sovranismo” politico, qualcosa di più preciso del populismo e di meno forte, per ora, dei nazionalismi vecchia maniera (anche se nel Front National, per le sue origini, questa radice è forte). Di fronte alla fallimentare, per i popoli, austerità europea si afferma l’ipotesi che politiche economiche più nettamente nelle mani degli Stati possano produrre delle novità importanti.

Il voto al Front National si nutre massicciamente di questa prospettiva: rifiuto dell’austerità, rifiuto della “vecchia politica”, della corruzione, delle liturgie istituzionali, nazionali o europee che siano, le quali alla fine producono sempre lo stesso risultato: taglio alle spese sociali, riduzione dei salari, dei servizi pubblici, libertà alle imprese di fare quello che vogliono a partire dai licenziamenti. Questa spinta non sarà fermata con il richiamo all’antifascismo o, come si dice in Francia, al “Fronte repubblicano”. Il vecchio bipolarismo è in crisi, lo è dappertutto, tanto che si consolidano le larghe intese. Ma – dalla Francia emerge con chiarezza – le larghe intese non sono un espediente formale bensì la sostanza dell’attuale politica europea in cui Pse e Ppe condividono gli stessi referenti sociali, rispettano le stesse elites e fanno le stesse politiche nonostante si alternino, formalmente, sul piano elettorale. I francesi oggi iniziano a voler provare una novità che promette di farla finita con le vecchie politiche (cosa tutta da dimostrare). 

Qui può situarsi un parallello con il M5S in Italia. Non sul tasso di populismo o, peggio, di estremismo politico a cui allude la maggior parte dei commentatori. Anzi, va detto che, rispetto alla Francia, l’Italia è fortunata a confrontarsi con un movimento “anti-sistema” che non ha le radici fasciste del Front e che non accarezza tentazioni razziste (anche se qualche scivolata c’è stata) o, men che meno, autoritarie. Ma la spinta alla base del successo di Le Pen o di Grillo è la stessa e non potrà che crescere. Perché i partiti del Pse e del Ppe, quelli delle larghe intese, continueranno con le politiche di sempre, magari con qualche spruzzata “populista” come fa Renzi in Italia. E’ nella loro natura, non possono cambiare. Mano a mano che l’austerità andrà avanti – con beneficio di banche e imprese e svantaggio di lavoratori e precari – la spinta euroscettica non farà che aumentare perché oggi costituisce la vera forza alternativa. Questo è il vero problema, anche per chi si colloca a sinistra.

Se è così, non ce la si cava solo, come fa la lista Tsipras in Italia, con un europeismo progressista. Serve un di più in termini di scardinamento dei meccanismi dell’Unione senza per questo cedere al “sovranismo” o all’idea che basti uscire dall’euro per cambiare di segno alle politiche liberiste. Occorre dire chiaramente quali altre politiche si vogliono fare ed essere disposti a scontrarsi con l’attuale Ue fino alle estreme conseguenze. L’uscita dall’euro non è un tabù se è il frutto di un’impostazione politica fruttuosa sul piano dei contenuti sociali mentre rischia di essere un’illusione se costituisce la promessa salvifica. Ma è su quelle politiche alternative che il discorso politico dovrà essere spostato. La lezione francese potrebbe, addirittura, essere salutare. Oppure produrre nuove sciagure.
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