Cultura

Salone del Mobile 2014, la passione della stampa inglese di screditarci

Qualcosa di simile era successo un anno fa. Più o meno un paio di settimane prima del Salone del Mobile, Marcus Fairs, inglese, editor in chief di uno dei più importanti blog di design, Dezeen, aveva cominciato a lanciare qualche messaggio equivoco dal suo account twitter, del tipo “Quanti di voi non andranno al Salone del Mobile?”, “Siete anche voi tra quelli che rinunceranno al Salone del Mobile quest’anno?” o ancora, il mio preferito, “Pare che quest’anno al Salone del Mobile ci sarà un tempo da lupi e pioverà sempre”… che novità! È da quando mi ricordo che al Salone del Mobile milanese piove. E poi che c’entra?

C’entra, perché l’anno scorso,  finita la festa – puntualmente presidiata dalla sua redazione e raccontata nelle pagine del loro blog – era uscito su Dezeen un editoriale che dava contro alla kermesse milanese, tra l’altro facendosi forte di argomentazioni improbabili: a parte il meteo avverso, venivano citati i commenti dei taxisti, e i pareri riportati da amici di amici come quello di una nota columnist di un quotidiano inglese che aveva contato i senzatetto in Duomo per attestare il livello della crisi italiana, o la segnaletica malfunzionante, la proliferazione di eventi sparsi in città e la confusione tra i termini “Salone del Mobile”, “I Saloni”, “Milano design week” che a suo avviso avrebbero reso impossibile l’orientamento in città. Bah. Un elenco di commenti – anche legittimi – che ci si potrebbe aspettare però da un visitatore occasionale e sprovveduto, non certo da uno sgamato editor che bivacca nei salotti milanesi da anni. Nessuno nega che Milano abbia dei problemi col design, ma vogliamo ragionare di quelli veri e seri. Che c’entrano i loghi?

C’entrano perché le uniche note pertinenti di critica erano quelle rivolte alle aziende italiane che ormai si sarebbero appiattite su un livello un po’ omogeneo, meno identitario e iconico, avendo finito per lavorare loro quasi tutte con sempre i soliti nomi del design contemporaneo. Peccato che quei nomi siano gli stessi che vengono pubblicati e spinti diligentemente nelle colonne del suo blog inglese, responsabile, al pari di alcune aziende (non solo italiane!) di un certo diffuso modo di fare del design blogghizzato, con belle immagini scontornate, video e racconti ipertrofici. 

A quell’editoriale erano seguiti altri interventi, nello specifico tre interviste fatte a presunti portavoce dell’italianità: Claudio Luti di Kartell, Patrizia Moroso dell’omonima azienda e Joseph Grima, allora direttore di Domus, da cui erano state estratte e messe in grassetto le riflessioni più autocritiche nei confronti della gestione del presente, più nostalgiche verso il passato, più interrogative verso lo scenario attuale. Ma certo: chiunque ami il nostro paese e la storia del suo design non può non soffrire della crisi economica e culturale in cui si trovano ad operare curatori, imprese, progettisti, ma – per dirla alla sua maniera – what about the rest of the world? Non vorrà dirci Fairs che è la schiera di stranieri che occupano le sue colonne a rappresentare la crema della creatività internazionale? O che un media, pur utilissimo, visitatissimo, aggiornatissimo come il suo possa riempire il buco che sta lasciando la crisi dell’editoria italiana nella critica di settore? O vorrà dirci – e questo alla fine sembra essere il vero punto caldeggiato strategicamente dalla lista di queste operazioni mediatiche – che sia la design week inglese che sta rubando la centralità a quella nostrana, sperando magari così di spostare il baricentro di investimenti da qui a lì?

Ieri l’ultimo articolo di questa serie, guarda caso due settimane prima del Salone, intitolato appunto Copenhaghen is the new Milan. Il pezzo è anche un giusto e condiviso omaggio al lavoro che sta facendo da qualche anno l’azienda danese Hay, insieme ad altre nordiche, sotto gli occhi di tutti… Ma mi chiedo perché per poter parlare bene di questa azienda – che, come scrive lo stesso giornalista nel suo pezzo, è tra l’altro supportata dall’aiuto del governo danese – si debbano scomodare le grandi italiane. Che c’entra?

C’entra. Perché a questo intervento possiamo aspettarci che ne seguano altri per screditare l’immagine del design italiano e su quelle ceneri costruire un altro piccolo impero del niente, visto che qui il banchetto sembra finito. La Milano del design non è più quella di cinquant’anni fa. “Breaking news!”, complimenti per lo spirito di analisi e l’occhio di lince. Purtroppo non sembra che nessun’altra design week, azienda o grande firma del design per il momento abbia costituito un potenziale sostituto di quello scenario. Ma sono ancora design week, aziende e firme gli attori reali dello scenario? Peccato che Fairs non fosse alla conferenza del Cosmit di quest’anno, altrimenti sì che avrebbe avuto pane per i suoi denti…

Comunque tra due settimane lui, i suoi redattori e tutta la comunità internazionale del design si raccoglieranno ugualmente a Milano, si bagneranno di pioggia, consumeranno i tacchi, vedranno il meglio del design solo in piccolissima parte italiano, e poi si lamenteranno degli italiani una volta tornati a casa, ma in ogni caso non potranno aver fatto a meno di salire sulla giostra. Welcome!