Lisa Fantozzi, 38 anni è responsabile della gestione dei progetti dell'organizzazione “International Medical Corps” nel paese africano. Il nostro paese investe poco nel settore umanitario e a causa della crisi i fondi vengono tagliati anche dall'Onu: "Preferisco essere una persona con il cuore strappato a metà, ma realizzata sul lavoro e in grado di aiutare contemporaneamente la mia famiglia e gli altri, piuttosto che stare a casa depressa o essere di peso"
Ciad, campi rifugiati. Senza bisogno di scomodare Emanuele Filiberto e qualche recente trasmissione tv, c’è chi presta la propria opera ogni giorno, con devozione e professionalità. Fra loro c’è Lisa Fantozzi, 38 anni. È responsabile della gestione dei progetti dell’organizzazione “International Medical Corps” per tutta l’area del Ciad, una donna coraggiosa che si racconta con forza e semplicità. Di madre inglese e padre italiano, Lisa ha vissuto in Toscana fino a quando si è trasferita per studiare arabo e geopolitica all’università di Londra. Tornata a casa nel 2000, si è scontrata con l’inevitabile difficoltà di collocarsi in un paese che poco investe nel settore umanitario. Riesce però a viaggiare: dopo il suo primo lavoro presso l’ambasciata del Qatar, viene invitata a seguito di un diplomatico nel suo paese, per restarci due anni. Al ritorno si occupa di rifugiati politici come consulente a progetto presso il ministero dell’Interno, e poi passa qualche anno come dipendente della Fao a Roma. Ma non è la sua strada. “Mi ritengo una persona preparata che fa con amore il suo lavoro, ma anche nelle organizzazioni internazionali aleggia lo spettro del poter far carriera solo se conosci qualcuno, piuttosto che per i tuoi meriti. Un modus operandi frustrante”. Senza prospettive di carriera, Lisa non nasconde di essersi sentita insoddisfatta e di essere partita per disperazione. “Non ero più io, di carattere solare e di ottimo umore. Partire è stata una questione di sopravvivenza, desideravo lavorare sul terreno per misurarmi e non dover più essere di peso per la mia famiglia, ma poterli anzi aiutare”.
La prima esperienza la fa in Congo, in una realtà che scopre per caso. “Come sempre i programmi interessanti in tv li fanno molto tardi, e in una delle mie notti insonni ho scoperto un ospedale pediatrico con annesso orfanotrofio a Kinshasa, fondato da una dottoressa italiana. È l’unico ospedale gratuito del paese, c’è gente che fa 180 chilometri a piedi per portare i propri figli a farsi curare. Mi sono candidata per lavorare nel mio settore: gestione dei progetti, controllo budget, ricerca donatori”. Dopo due anni fra l’Italia e il Congo, nel 2011 Lisa prende la grande decisione. “Ho dovuto scegliere per disperazione, non avevo futuro nel mio paese. Non avendo una famiglia potevo concedermi il rischio, ma è stato difficile lasciare mia madre, che gode di ottima salute ma è pur sempre in là con gli anni ed è l’unico genitore che mi sia rimasto. A volte devo andare in missione in campi rifugiati dove non sono raggiungibile per settimane. Non posso non pensare che se succedesse qualcosa a casa, io non potrei esserci in tempi brevi”.
In questi anni, Lisa ha lavorato per varie ong in zone diverse. Si è abituata a vivere senza elettricità, senza acqua corrente, a contatto con insetti giganti e malattie. “Nonostante le difficoltà sono felice, appagata da quello che faccio. Se un bambino mangia due volte al giorno, vuol dire che ho fatto bene il mio lavoro. Certo è pesante, al punto che a volte ti domandi se fino alla fine dei tuoi giorni riuscirai a sopportare questo carico. Recentemente ho lavorato con bambini soldato, violentati, rapiti. Tornata in Italia per un mese, ho avuto un crollo. Mentre stai lavorando sei talmente nel vortice che non hai tempo per pensare alle cose che vedi, ma il tuo cuore e il tuo cervello assorbono quell’esperienza. Quando ti fermi sei perduto, è lì che diventa problematico. A casa non parlo nemmeno delle cose che vedo. Farei soffrire inutilmente la mia famiglia che non può fare nulla. Ma io sono lì, sul terreno, e posso fare qualcosa, per quanto poco”.
Certo i problemi non mancano, racconta Lisa, in primis la mancanza di finanziamenti: “Con la crisi mondiale sempre meno fondi sono destinati agli aiuti umanitari. Ad esempio, noi lavoriamo molto con l’Alto commissariato per i rifugiati politici, qui in Ciad abbiamo due campi di 40mila rifugiati del Sudan. Quest’anno l’Alto commissariato ha tagliato il budget del 31%, chiedendoci gli stessi servizi in quantità e qualità. Inoltre la situazione in Darfur sta peggiorando, quindi ci aspettiamo di vedere ancor più persone arrivare. Abbiamo molto lavoro da fare, sempre”.
Il tasto dolente del ritorno a casa colpisce Lisa. “Non so se riuscirò mai a tornare. Mi mancano moltissimo l’Italia, la mia famiglia e i miei amici. Se la situazione politico-economica non si muove, dubito di avere un futuro lì, e lo dico con estrema tristezza. Vorrei sognare di poter tornare un giorno, ma ora non posso permettermi neanche questo. Allora preferisco essere una persona con il cuore strappato a metà, ma realizzata sul lavoro e in grado di aiutare contemporaneamente la mia famiglia e gli altri, piuttosto che stare a casa depressa o essere di peso”.