C’è un codice a cui prestare giuramento, scritto nero su bianco. Undici punti: “rispettare la madre e il padre”; “avere un aspetto fisico impeccabile”; “non arrivare ubriachi o drogati alle riunioni”. A leggerlo sembra il decalogo di un gruppo scout. Sembra, appunto. Perché oltre alle regole a cui sottostare ci sono le pistole e i machete, le punizioni corporali per i “fratelli” che sgarrano e gli scontri con gli altri gruppi per controllare le zone di Milano (leggi). E c’è la segretezza, che deve regnare tra gli affiliati dei Latin King. Una gang nata nei quartieri di immigrati sudamericani negli anni ’40, a Chicago, e riprodotta in Italia (a Genova e soprattutto tra i marciapiede di Milano tra la fine degli anni ’90 e il 2000), composta non solo da latinos, ma ormai anche da italiani.
Lo spaccato emerge da un semplice, ma efficace, controllo dei poliziotti del commissariato Porta Genova che hanno perquisito sette giovani, appartenenti a una delle più potenti pandillas presenti nel capoluogo lombardo. Sono le 17 di sabato, gli agenti notano un gruppo di ragazzi in un parchetto di via Olona, vicino al Museo della Scienza e della Tecnica (zona centrale della città). I sette si guardano attorno, confabulano, si agitano. I poliziotti li tengono sotto controllo per un po’, poi decidono di intervenire. Hanno visto giusto. Perché dalla scarpa di uno dei sette – Michele Di Gese italiano di 21 anni con precedenti per rapina, arrestato per ricettazione e porto abusivo di armi -, salta fuori una beretta 7.65, con sette colpi nel caricatore (risultata rubata nel 2011). Mentre addosso a un ecuadoriano e a un dominicano di 20 e 17 anni (entrambi denunciati), gli agenti trovano tre coltellacci e un machete, nascosto in una custodia fatta in casa con cartone e scotch da pacchi. Gli altri quattro, tra cui un minorenne, vengono identificati e rilasciati.
Oltre alle armi, gli agenti guidati da Alessandra Simone scoprono, tatuato sul corpo di quattro dei sette, il segno di appartenenza dei Latin King: una corona a cinque punte e altri segni distintivi della banda. Non solo, dalle tasche di un ragazzo spuntano due pagine scritte a computer in spagnolo: è il rituale di affiliazione alla pandilla e le regole da rispettare una volta superata la prova dei “3.60”: 4 minuti in cui, dai due ai quattro componenti devono picchiare il nuovo “fratello” arrivato. Che una volta entrato nella “Nazione” deve dimostrare di avere fegato, magari rapinando un negozio. Ed è forse questo – ragionano gli investigatori – quello che i sette si apprestavano a fare, prima di essere notati dai poliziotti.