Già, perché Rodriguez, cantautore borderline di Detroit, quando negli anni Settanta produce i suoi unici due dischi, Cold Fact nel 1970, e Coming from Reality nel 1971, vende pochissime copie negli Usa, tant’è che il contratto firmato con la casa discografica viene rescisso – come canta profeticamente nell’ultimo brano che incide – ed è licenziato due settimane prima del Natale del ‘71. Probabilmente, il nome di origine ispanica unito ai parametri commerciali di quel periodo, ne fanno di lui un perdente. E così, in grosse difficoltà economiche, Rodriguez abbandona ogni velleità artistica, sopravvivendo con lavoretti saltuari da manovale.
I suoi dischi, però, a partire dalla metà degli anni Settanta, diventano a sua insaputa assai popolari in Australia e Nuova Zelanda, Botswana e Rhodesia, ma è in Sudafrica, dove regna l’Apartheid, che le sue canzoni diventano veri e propri strumenti di ribellione e i suoi dischi venduti per milioni di copie. È tuttora un mistero come una copia di Cold Fact sia arrivata in Sudafrica, una delle leggende narra che una ragazza americana portò con sé una copia del disco di Rodriguez per regalarlo al fidanzato e che questo l’abbia fatto diffondere rapidamente.
Attorno alla figura del songwriter statunitense, che invece invita a lasciarsi andare, a spezzare le catene, a godersi la vita, si crea il mito. Ma con Internet ancora di là da venire e zero informazioni sul suo conto (esclusa la copertina del disco che però fornisce pochi indizi), è impossibile tributare degnamente l’uomo che ha dato un forte impulso a ribellarsi contro l’Apartheid. Perché se è vero che ogni rivoluzione ha la sua colonna sonora, in Sudafrica è firmata, sempre a sua insaputa, da Rodriguez. I wonder, uno dei brani trainanti dell’album Cold Fact, diventa un motivo popolarissimo, suonato a ripetizione in tutte le radio, bar e luoghi pubblici, così come la splendida Sugar Man da cui deriva il titolo del film documentario a lui dedicato.
È grazie alla Rete se Rodriguez ha potuto rinascere a miglior vita (oggi si definisce “l’uomo che visse due volte”) anche se gli anni trascorsi invano nessuno potrà restituirglieli. Quando si esibisce per la prima volta in Sudafrica, grazie alla ricerca di due fan scalmanati e alla figlia che in Internet si accorge che del padre si parla quasi come fosse Elvis Presley o Bob Dylan, chissà cosa deve essergli passato per la mente durante quei primi venti minuti in cui raccoglie solo applausi. Certo, avrebbe potuto chiedere indietro i soldi dei diritti d’autore, intentare infinite cause contro chi per tanto tempo ha sfruttato la sua musica. E invece Rodriguez, senza alcun rancore, è volato in Sudafrica, ha concesso sei concerti sold out ed è tornato a Detroit, continuando a vivere la sua vita da manovale come nulla fosse.
Il docufilm Searching For A Sugar Man presentato al Festival di Cannes nel 2012, ha permesso che quello che avrebbe dovuto essere solo un tributo a un artista dimenticato, diventasse il racconto della vita di una persona strappata all’anonimato: come sempre, però, la mercificazione della nostalgia finisce col propinarci un passato che non è mai esistito. E certe volte sarebbe meglio non approfondire. Il concerto a Bologna è stato pura e semplice testimonianza della storia di questo settantaduenne musicista-operaio dimenticato e poi risorto, semicieco e bisognoso di accompagno fin sotto il microfono. Null’altro. Nonostante l’eccitazione del pubblico fosse palpabile, è stato chiaro fin da subito che non è più tempo per lui. Come dimostra anche la selezione delle cover eseguite di brani anni 50, più adatti al periodo in cui avrebbe dovuto realmente calcare le scene: Blue Sued Shoes, Unchain Melody, Lucille, Fever… A un certo punto, anche tra il pubblico c’è stato chi ha mostrato un certo disappunto. Forse era meglio non trovarlo Sugar Man. E allora ti convinci che sì, sarebbe stato più poetico fermarsi al docu-cult.