La riforma parla di eliminazione degli enti, ma porterà a conflitti amministrativi e altri costi. Maggioranza due volte sotto in commissione, no a pregiudiziale di costituzionalità M5s per 4 voti
Togli le Province e metti le Province (di nuovo) e qualche Città metropolitana (dieci in tutto). Il gioco di prestigio per il risparmio sugli enti locali sognato da Graziano Delrio, ex ministro degli Affari regionali e ora sottosegratario alla presidenza del Consiglio svela il trucco prima ancora di essere applicato. Il disegno di legge del braccio destro di Matteo Renzi parla di un’abolizione delle strutture, ma nella pratica lascia caos amministrativo, rischio ricorsi locali e difficoltà burocratiche dagli alti costi e i risultati scarsi. Secondo Delrio, il ddl consentirà un risparmio di quasi 2 miliardi e una riduzione delle cariche politiche (tra questi i consiglieri provinciali che non saranno più eletti). Gli rispondono i dati della Corte dei Conti, citati da lavoce.info, che parlano di soli 35 milioni di risparmio immediato. Manca poi un’effettiva pianificazione territoriale in termini di competenze che chiarisca le responsabilità dei singoli enti. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ci crede: “Se domani passa la nostra proposta sulle province 3000 politici smetteranno di ricevere una indennità dagli italiani. La volta buona” scrive su Twitter.
E non è finita: se il Parlamento non approverà il testo entro il 5 aprile, le Province da rottamare dovranno andare ad elezioni per rinnovarsi come nel più assurdo dei paradossi. La corsa contro il tempo in commissione Affari costituzionali al Senato ha visto già i primi ostacoli: la maggioranza di governo è caduta due volte su due emendamenti. Ovvero l’opposizione ha ottenuto il passaggio alle Province della competenza sull’edilizia scolastica e la bocciatura dell’emendamento del Pd che chiedeva un tetto all’indennità del presidente. Il testo è ora in discussione al Senato dove qualche altro pezzo della maggioranza potrebbe saltare. Il primo brivido per il governo Renzi è sul voto della pregiudiziale di costituzionalità: l’Aula respinge la richiesta del Movimento 5 stelle di bloccare il testo con 115 voti a 112 e un’astensione. Solo 4 quindi sono stati i voti di scarto. “Vi aspettiamo al varco”, ha commentato il senatore della Lega Jonny Crosio. Il sottosegretario alle Riforme Luciano Pizzetti aveva rassicurato circa la solidità della maggioranza a palazzo Madama.
E a criticare la riforma è perfino l’Unione delle Province italiane: “La vera riforma era quella che prevedeva l’accorpamento delle Province piccole e degli uffici periferici dello Stato, con un vero dimezzamento e risparmi concreti – dice il presidente dell’Upi Antonio Saitta – Ma non si è avuta né la forza politica né il coraggio per opporsi alle alte burocrazie dello Stato, e si è scelto di accontentarsi di una piccola riforma, banale, confusa, superficiale, che non produce risparmi ma anzi porta all’aumento della spesa pubblica. Una riforma antieruopea, del tutto in controtendenza con quanto accade nel resto dei Paesi Ue. Questo disegno di legge che si sta approvando in Senato, non solo non abolisce le Province e non produce risparmi, come ha chiarito la Corte dei Conti, ma crea una grandissima confusione tra chi dovrà assicurare ai cittadini i servizi essenziali”.
Chi ostenta serenità è il relatore Francesco Russo (Pd): “Aldilà di alcune posizioni divergenti”, afferma, “in commissione si è registrata un’ottima collaborazione, senza la quale non saremmo arrivati a questo punto”. Il voto finale dell’aula sul testo, che comunque dovrà tornare alla Camera, è previsto per domani pomeriggio. Tra le modifiche approvate in commissione, c’è anche un subemendamento del relatore Russo che modifica le regole per l’incompatibilità della carica da parlamentare con qualsiasi altra carica pubblica elettiva, permettendo ai parlamentari di continuare a ricoprire cariche nei Comuni inferiori a 15mila abitanti (anziché a 5mila, come prevede la legge attuale).
La maggioranza di Renzi al Senato traballa. Polemiche per assenze Forza Italia
E’ polemica aperta nel gruppo di Forza Italia del Senato. Motivo: l’assenza di almeno 17 parlamentari dall’Aula al momento del voto sulla pregiudiziale di costituzionalità presentata dal m5S contro il DDl Delrio sulle province. Un’assenza che ha impedito di bocciare il provvedimento “una volta per tutte”. Il capogruppo Paolo Romani, subito dopo il voto, ha scritto ai suoi senatori un sms dicendo “che oggi si è persa davvero una grande occasione”. “Se solo fossimo stati tutti presenti in Aula – spiega uno dei senatori forzisti che invece nell’emiciclo c’era – del ddl Delrio non ne parlerebbe più nessuno, sarebbe stato cancellato. E invece prima si prendono l’incarico nell’ufficio di presidenza e poi non si presentano neanche in Aula per essere conseguenti con quelle che sono le linee politiche del partito, per votare cioè contro provvedimenti come questo”. All’appello, si conferma nel gruppo di FI, mancavano, tra gli altri, Denis Verdini, Maria Rosaria Rossi, Sandro Bondi e Manuela Repetti. Decisiva anche la spaccatura dentro al gruppo parlamentare “Popolari per l’Italia. Per la bocciatura della pregiudiziale, appoggiata anche da Sel, sono risultati decisivi i voti di Pier Ferdinando Casini e Maria Paola Merloni. A favore della pregiudiziale, approvata con soli quattro voti di scarto, a quanto si apprende, avrebbero votato invece altri tre senatori di Pi: Andrea Olivero, Salvatore Di Maggio e Lucio Romano. I tabulati relativi alla votazione non sono consultabili.
Forza Italia: “Accordo saltato con il Pd”. E ripresenta 2mila emendamenti
L’altra notizia, anticipata dall’agenzia politica Public Policy, è che sono stati ripresentati i circa 3mila emendamenti che erano stati ritirati in commissione. Sono firmati in gran parte da Forza Italia (circa 2mila) e Lega (circa 500). “L’accordo con la maggioranza è saltato perché è ancora prevista l’elezione indiretta del sindaco della Città metropolitana – spiega il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, componente della commissione Affari costituzionali -. Non accettiamo che il centrosinistra si prenda non democraticamente tutte le Città metropolitane, visto che tendenzialmente le gradi città sono tutte di centrosinistra”. Attualmente il ddl prevede infatti che il sindaco della Città metropolitana sia di diritto il sindaco del Comune capoluogo di Provincia. “Restiamo contrari al ddl – prosegue Zanettin – e ostacoleremo in tutti i modi il provvedimento facendo anche opposizione, per quanto i tempi siano contingentati”. Più disponibile al dialogo la Lega. La senatrice Patrizia Bisinella, componente della commissione Affari costituzionali ci tiene a precisare che “non intendiamo dire che l’accordo è saltato ma manteniamo la contrarietà sull’impianto generale del testo. In Aula non si rinizia da capo – prosegue – se si troverà un accordo possiamo anche ritirare alcuni degli emendamenti, non faremo ostruzionismo su ogni singolo emendamento”. Anche per la Lega il punto nodale resta l’elezione diretta del sindaco metropolitano.
Calendarizzata la proposta di legge del Movimento 5 stelle per abolizione totale delle Province
Maggioranza ed opposizione, a quanto si apprende da fonti parlamentari, avrebbero raggiunto un accordo per chiedere la calendarizzazione urgente di un nuovo ddl costituzionale per l’abolizione delle province. Il nuovo ddl, secondo quanto riferiscono fonti del M5S, prevede la soppressione “tout court” della parola “provincia” dalla Costituzione. Il testo farebbe riferimento a quello depositato dai parlamentari cinque stelle Vito Crimi al Senato e Danilo Toninelli alla Camera.
La maggioranza va sotto in commissione, il testo passa all’Aula con alcune modifiche
“Mi ritengo molto soddisfatto – ha commentato il relatore Pd Francesco Russo – tutti i gruppi parlamentari hanno contribuito al testo uscito dalla commissione”. Il termine per la presentazione degli emendamenti in Aula è stato fissato per le 17 e Russo non ha escluso la possibilità che “qualche emendamento possa essere ripresentato”. Ha retto dunque l’accordo con le opposizioni, in particolare con Lega e Forza Italia, anche se quest’ultima chiede ancora l’elezione diretta del sindaco della Città metropolitana. Approvati quindi tutti gli emendamenti presentati dal relatore. Le principali novità riguardano il numero di Città metropolitane, che saranno solo dieci senza la possibilità per i capoluoghi di Sicilia, Sardegna e Friuli Venezia Giulia di diventarlo. Via anche la possibilità per le grandi Province (con 1 milione di abitanti) di diventare Città metropolitane. Confermato il commissariamento delle Province in scadenza fino al 31 gennaio 2014, il trasferimento di parte delle loro funzioni, e l’entrata a regime delle Città metropolitane il 1 gennaio 2015. Province e Città metropolitane saranno organi di secondo grado.
Una corsa contro il tempo per evitare nuove elezioni
Perché una corsa contro il tempo? Il rischio è quello di far scattare l’indizione dei comizi elettorali e quindi trovarsi con il paradosso che le strutture da rottamare si trovino a dover indire nuove elezioni per rinnovarsi. Ad essere coinvolte sono 52 province a statuto ordinario e altre 21 già commissariate nel 2012/2013. Se il ddl non sarà approvato entro fine marzo, l’appuntamento sarà per l’election day del 25 maggio prossimo. “Terminato il G7, sono a Roma per lavorare sui nostri dossier: Province, Senato, Titolo V, Cnel, scuole, Patto di stabilità. #buongiorno”, così ha twittato nelle prime ore della giornata il premier Matteo Renzi.
Le Province? Restano o diventano Città metropolitane
Il disegno di legge prevede una “ridefinizione” della Province che lentamente saranno trasformate in enti di secondo livello e l’unione o fusione dei piccoli comuni. Obiettivo? Il progressivo svuotamento delle funzioni a favore di Città metropolitane e Consorzio dei comuni. In questo modo, stando alle intenzioni iniziali, si dovrebbe arrivare ad una riduzione di circa 5mila cariche politiche e ad un risparmio dagli uno ai due miliardi (dati che però contestano in molti). “E’ una riforma che fa acqua da tutte le parti”, commenta il senatore M5s Giovanni Endrizzi. Ma non solo. I dubbi che accompagnano la riorganizzazione del tema arrivano da varie fonti accreditate. “Quello che dai media”, scriveva Luigi Oliveri su lavoce.info a gennaio 2014, “è definito il disegno di legge ‘svuota province’, in realtà non prevede né l’abolizione né il loro riordino. Anzi, crea una situazione molto più confusa di quella attuale. Processo di attuazione decisamente lungo e complesso, con risparmi solo illusori”. Ad essere criticato in primo luogo è il fatto che la legge non elimini le province: è prevista infatti una loro riorganizzazione. Là dove sarebbero eliminate, verrebbero sostituite dalle città metropolitane, a guida questa volta del sindaco del capoluogo. Una decisione che potrebbe mettere in discussione la “rappresentatività elettorale” del primo cittadino che dovrà gestire direttamente altre questioni che non riguardano direttamente ciò per cui è stato eletto.
I costi restano, i risparmi ancora troppo pochi
Capitolo nero anche quello che riguarda i risparmi. Gli esperti infatti denunciano che nel testo prodotto dall’ex ministro agli Affari regionali Graziano Delrio non affronta in modo dettagliato la questione risparmi. Come infatti segnalato sempre Oliveri su lavoce.info, il processo di riorganizzazione prende a ispirazione lo studio dell‘istituto Bruno Leoni e un possibile risparmio di circa 2 miliardi, anche se per quanto riguarda il risparmio dall’abolizione degli enti, la cifra sarebbe di soli 160 milioni. Ad essere più certa invece, è la rilevazione della Corte dei conti che parla di risparmi incerti e rilancia: si guadagnerebbero solo 35 milioni, visto che già nell’estate del 2011 si era proceduto con una forte riduzione delle strutture organizzative.