Cosa resta a Cipro, un anno dopo la crisi che ha portato al prelievo forzoso e alla chiusura dei bancomat su sull’isola? Quanto lo scotto pagato dai correntisti russi in quella circostanza potrà influire nelle dinamiche legate al caso ucraino? Ad oggi e al netto di memorandum, annunci tranquillizzanti e intervento della troika, a Cipro resta solo una sorta di zombie bank da 19 miliardi di debiti, che è stata definita un “mostro che cammina”. Mentre anche il Financial Times con un pezzo vergato da Tony Barber si “accorge” di quanto complicata sia la contingenza a Cipro (“buone prospettive finanziarie ma cattive politiche”), il Paese reale fa i conti con un anno di memorandum, con i numeri ufficiali che parlano di nessuna prospettiva in grado di attrarre capitali per l’isola. Dodici mesi dopo l’esperimento cipriota, con il prelievo forzoso dai conti correnti e giorni di black out ai bancomat dell’isola, se da un lato piccoli progressi fiscali sono stati fatti, dall’altro proprio la Laiki bank, ovvero la più grande banca di Cipro oggetto della ristrutturazione della troika, boccheggia.
Se molti ricchi russi e ucraini sono ancora rimasti, non da ultimo perché il tasso d’imposta per le imprese è stato aumentato solo dal 10 al 12,5 per cento, il futuro è nebuloso per via dei numeri: 19 miliardi debiti a fronte di una produzione economica annuale cipriota di circa 16 miliardi di euro. Quasi la metà dei prestiti concessi dalla Banca non sono adeguatamente ripagati. Secondo la stampa greca due dozzine di grandi imprenditori ciprioti deve all’istituto circa sei miliardi di euro. Quali le prospettive dopo questi numeri? E soprattutto come giustificare l’ottimismo dell’Ue sulla cura imposta al malato cipriota? Un anno fa, il 21 Marzo 2013, il presidente cipriota Nikos Anastasiadis, presentava il “Piano B” dopo che il Parlamento aveva in precedenza respinto le condizioni della troika per un pacchetto di salvataggio. Il piano per imporre un prelievo forzoso su tutti i depositi presso le banche locali era fallito senza un solo sì. E al fine di garantire la “sostenibilità del debito” del suo paese, Anastasiadis aveva annunciato di istituire un “fondo di solidarietà per gli investimenti” per evitare il sequestro dei conti bancari.
Ma il progetto fallì, come dimostrò il tour effettuato dall’ex ministro delle Finanze cipriota a Mosca. Per cui il Parlamento disse sì al secondo programma ausiliario che conteneva condizioni molto più severe rispetto al primo. All’inizio del secondo anno di crisi se da un lato lo Stato ha compiuto notevoli progressi nel consolidamento fiscale, nei fatti la crisi bancaria a Cipro è tutt’altro che prossima alla risoluzione, con la disoccupazione che galoppa al 19% e con le mire espansionistiche turche sul gas presente in massa nel sottosuolo di Nicosia. Sul punto si registra un forte movimentismo internazionale, come quello dell’ International Crisis Group che propone una soluzione tecnica per la riunificazione dell’isola, creare due stati e la possibilità per i turcociprioti di votare già alle prossime elezioni europee di maggio.
Ma con i dubbi di una possibile interferenza di altre superpotenze sulla bozza. Una situazione di oggettiva e prolungata criticità, che si somma alla sofferenza (politica ed economica) dell’intera area mediterranea, scossa non solo dai venti di guerra come stanno lì a dimostrare i fronti aperti in Ucraina, Libia, Egitto e Siria (che hanno portato tre fregate russe 24 ore fa ad entrare nel porto del Pireo) ma anche dalle possibili difficoltà economiche della Turchia, fino a ieri immune da un coinvolgimento di natura finanziaria. Ma oggi attratta nelle sabbie mobili di un leader azzoppato da scandali e propositi dittatoriali, e da una troppa vivacità economica che ha creato consumi non più sostenibili.