Come l’alternarsi della stagione secca e del monsone, le piogge che portano devastazione e sostentamento all’agricoltura, ogni anno l’emergenza dei suicidi tra i contadini dell’India rurale ritorna in tutta la sua urgenza. Nelle ultime settimane il Maharashtra – enorme stato dell’India centrale – ha registrato almeno 24 suicidi di contadini, in maggioranza residenti nel distretto di Vidarbha, tristemente noto per le statistiche che dagli anni ’90 ad oggi lo posizionano al primo posto tra le aree dove la disperazione per il raccolto perso spinge gli agricoltori a togliersi la vita.
Secondo le cifre ufficiali – che esperti indipendenti ritengono massicciamente arrotondate per difetto – dal 1995 ad oggi in India si sono tolti la vita più di 300mila contadini, stretti nella morsa dei debiti contratti con usurai locali e lasciati senza introiti da piogge “fuori stagione” o grandinate, letali per le messe di riso e cereali coltivate in zone difficili, dove lo sbalzo tra la siccità pre monsonica e le piogge – quando imprevisto – mette a repentaglio intere coltivazioni. L’ultimo caso arriva dal distretto di Nanded, sempre in Maharashtra, dove Santuka Garole (42 anni) ha deciso di togliersi la vita di fronte all’impossibilità di pagare un debito di 90mila rupie (poco più di mille euro) contratto con la banca locale: il suo raccolto di ceci era stato devastato, nel mese di settembre, da una grandinata fuori stagione.
Storie come quelle di Garole sono all’ordine del giorno in stati vessati da condizioni climatiche estreme dove l’imprevedibilità del cambio di stagione espone la maggioranza dei contadini – impegnati in attività economiche di sussistenza, con una vita al margine della soglia di povertà – a investimenti in sementi molto remunerative, specie le coltivazioni geneticamente modificate in grado di sopportare la siccità estrema di zone come il Maharashtra e il Madhya Pradesh; ma basta un diluvio non programmato per lasciare una famiglia sul lastrico, spingendola tra le braccia degli usurai.
Chi non riesce ad accedere alle forme di prestito bancario, nella speranza di recuperare l’investimento perso si rivolge a prestasoldi locali, ben lieti di aprire una linea di credito dai tassi d’interesse esorbitanti. Qualche settimana fa, racconta il New York Times, un contadino dell’Andhra Pradesh – Veera Reddy – è riuscito a suicidarsi al terzo tentativo, impiccandosi ad un albero non appena la moglie è uscita di casa. La nota lasciata alla famiglia elencava tutti i debiti contratti negli ultimi anni, con nome e cognome dei creditori segnati diligentemente al fianco delle voci in negativo del bilancio. Reddy era sotto di 400mila rupie (quasi 5000 euro), un’enormità maturata con tassi d’interesse al 24 per cento.
La morte di Reddy non ha svincolato la famiglia – moglie e figlio – dai vincoli del debito: nel villaggio, ha spiegato la vedova al quotidiano statunitense, è una questione di “correttezza”, di onore. Ma le condizioni climatiche e gli usurai sono solo due tra le numerose cause che, dalle riforme economiche ufficializzate nel 1991, hanno reso la vita impossibile a milioni di contadini indiani, un tempo spina dorsale dell’economia nazionale e ancora oggi, numericamente, la maggioranza della forza lavoro del subcontinente (oltre il 60 per cento della popolazione totale). L’arretratezza infrastrutturale dell’India, la difficoltà nei trasporti e nell’approvvigionamento di acqua, la mancanza di chiare politiche di sviluppo e sostegno degli agricoltori locali e, soprattutto, la transizione fulminea – nell’immaginario collettivo – da paese del terzo mondo ad aspirante potenza del terziario, hanno lasciato gli agricoltori stretti nel limbo di un’economia di sussistenza dove i sogni di affrancamento dalla povertà – ripetutamente professati dalla politica nazionale negli ultimi vent’anni – si scontrano con l’impossibilità materiale di aspirare ad altro. C’è chi, per provare a slegare almeno i propri figli dal legame con la terra tramandato di generazione in generazione, contrae debiti ingenti per iscrizioni a scuole private che promettono il “sogno indiano”: diventare ingegneri, lavorare nelle Information Technologies, aprirsi una propria attività e lasciare finalmente il villaggio. Ma spesso la spesa sostenuta condanna le famiglie all’insolvenza e lo studente scolarizzato affronta l’altro grande problema indiano: l’ingresso nel mondo del lavoro.
Con oltre la metà della popolazione attuale al di sotto dei 25 anni (più di 700 milioni di persone), la misera crescita economica indiana degli ultimi anni e la creazione sporadica di nuove occasioni d’impiego, le nuove generazioni approdano ad esistenze da inoccupati. Per tutti gli altri, legati al lavoro della terra senza una scolarizzazione adeguata, in mancanza di politiche di sviluppo statali, non resta che “arrangiarsi”. Il nodo dell’agricoltura, anche grazie all’emergere di storie come quelle di Garole e Reddy, è stato affrontato dagli esponenti politici impegnati in queste settimane nella campagna elettorale nazionale, con l’apertura delle urne prevista per il prossimo 7 aprile. Narendra Modi, candidato del partito nazionalista Bharatiya Janata Party (Bjp) dato per favorito, rivolgendosi ai contadini di tutto il paese ha dichiarato che “suicidarsi non è il modo di affrontare la crisi”, promettendo politiche di sviluppo ad hoc per “rilanciare l’agricoltura e rivitalizzare l’economia nazionale”. Promesse ripetute ciclicamente in ogni campagna elettorale degli ultimi vent’anni da esponenti di tutto l’arco parlamentare ma che, alla prova della realtà, faticano ad avverarsi.
Matteo Miavaldi
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