Ho di recente visto due brevi documentari, Gli occhi non li vedono di Maria D’Oronzo e Reparto 14 di Valentina Giovanardi. Entrambi narrano di Giorgio Antonucci, psichiatra antipsichiatrico, che nei filmati diventa centro irradiante di una denuncia a tutto tondo della psichiatra che egli definisce “un errore intellettuale”, liquidandola come oppressiva e repressiva, da cancellare nei suoi fondamenti epistemologici.

I tempi sono cambiati e l’approccio psichiatrico ricorre sempre meno alla coercizione fisica, non erige muri né solide porte dotate di spioncino eppure i documentari di D’Oronzo e Giovanardi e soprattutto le tesi di Antonucci trasudano di un’inquietante attualità. La risposta sociale al disagio e alla malattia mentale organizzatasi intorno all’approvazione tacita del discorso e della pratica clinica psichiatrica pur in parte depurata del concreto e classico apparato manicomiale, mantiene un ordine simbolico fortemente centrato sulla distinzione normale a-normale e ricorre ai muri invisibili della farmacopea la quale ha tutto l’interesse finanziario ad avere pazienti da tenere sotto trattamento farmacologico.

Non spenderò ulteriori parole sull’uso/abuso esponenziale degli psicofarmaci nel nostro Paese, sull’inquietante alleanza tra molta psichiatria e industria farmaceutica basta aprire un attimo gli occhi. Preferisco chiedermi il perché della difficoltà, se non dell’impossibilità, di accedere ad una visione alternativa della malattia e del disagio mentale a cui potrebbe dare seguito, per stare a temi che più m’interessano, un utilizzo più strutturato e stabile di pratiche a statuto creativo.

Sono per esperienza portato a pensare che un laboratorio di teatro, se condotto con cognizione di causa, possa validamente sostituire o diminuire gli psicofarmaci. Danzare, disegnare,  suonare, scrivere, fotografare, filmare ecc. non rientra normal-mente nella prescrizione psichiatrica ma è noto il guadagno terapeutico che queste pratiche sono in grado di produrre, spesso in modo sorprendente e senza effetti collaterali. Eppure questi approcci nei diversi contesti della prevenzione e cura del disagio mentale dovrebbero essere molti di più. Ma anche quando nei centri di riabilitazione psicosociale, nei DSM ecc., riescono ad entrarvi si pone una questione delicata: il committente “piega” le pratiche,  delicatamente, senza risultare prescrittivo,  alle proprie esigenze, e così educatori e educatrici, altre diverse figure d’esperti che si avvalgono di mediazioni creative scimmiottano il linguaggio e le chiavi di lettura interpretativa degli psichiatri e psicologi, sempre a cercare indizi patologici negli esiti creativi da esibire durante quelle cervellotiche e disidratate verifiche a cui ho spesso assistito e nelle quali la vita si accomoda, in punta di piedi, verso l’uscita a prendersi salutari boccate d’aria.

L’arte-terapia è una delle invenzioni più ridicole che esistano: lì gli artisti o gli aspiranti tali iniziano ad infliggersi la loro personale crocifissione. Sacrificano molto della loro libertà espressiva in nome di una causalità bio-psicopatologica della creazione, il più delle volte forse per bisogno di lavorare, comprensibilmente. Assecondano però una schisi secondo la quale esisterebbero creazioni frutto di patologia e altre di sanità mentale e s’inerpicano in lunghe discussioni e interpretazioni di un gesto, una parola, un tratto poetico trovandosi in affanno con i termini del sempre più corposo manuale di psichiatria e igiene mentale. E invece l’arte è sempre terapeutica, non ha quindi bisogno di aggettivarsi come tale, così com’è implicito che l’acqua bagna e non si ha bisogno di ricorrere a ridicole tautologie per esorcizzare la percezione di ‘parvenu’ al tavolo dei consumati esperti della psiche. Se per arte terapia s’intende circoscrivere il luogo in cui si opera (il contesto terapeutico) può anche starci ma se diventa sostanza dell’agire non si comprende la ragione per quel dato approccio così connotato sarebbe terapeutico e un altro, semplicemente Arte, no. Non per pedanteria ma quel definire l’arte come “terapia” significa risucchiare le parole nel significato clinico e operare l’asimmetria paziente/terapeuta che implica di per sé la negazione dell’Arte che non fa distinzioni del genere, proprio perché è Arte.  

Bisognerebbe invece dire loro, agli psichiatri e agli specialisti del mal d’anima, di andarci piano con la prescrizione degli psicofarmaci e di darsi da fare di più per far entrare nei vari centri di prevenzione e cura il teatro, il cinema, la letteratura, la musica, la scrittura ecc., lasciando che il benefico ed elusivo risultato di queste attività si depositi lontano da significazioni ad hoc, affrancandole da relazioni e resoconti che spesso servono solo alle strutture psichiatriche e loro metodologie per auto confermarsi ed alimentarsi. 

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