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Crisi, una strada svizzera per l’Unione Europea

Gli svizzeri hanno capito che è necessario affrontare i problemi comuni in modo pragmatico e condiviso, pur rispettando le differenze culturali tra le diverse regioni. Un modello valido anche per l’Unione Europea.

Di Giuseppe Bertola* (lavoce.info)

Due modelli d’Europa 

La crisi dell’Unione Europea è tanto economica quanto culturale. Per capire come si possano affrontare i problemi dell’Unione, è interessante vedere se e come sono stati risolti all’interno della Svizzera o in altri Stati, dove le differenze culturali sono rese evidenti dalla diversità linguistica e religiosa. (1)

Gli stati-nazione di cui l’Unione Europea dovrebbe gestire le relazioni economiche e politiche si sono formati a partire dal Cinquecento e fino all’Ottocento. La Confederazione svizzera fu inizialmente incline a partecipare al gioco, ma dopo aver conquistato Borgogna e Lombardia fu sconfitta dalla nazione prototipo, la Francia. Si ritirò in una neutralità permanente e armata e non partecipò né alle successive guerre, né, in tempi più recenti, al processo di formazione dell’unione economica e monetaria che oggi la circonda completamente.

Anche la struttura economico-sociale della Confederazione è rimasta a lungo diversa da quella delle nazioni circostanti. Un mercato unico all’interno della Svizzera è stato introdotto nel 1996, imitando o adottando le misure che già nel 1992 avevano eliminato le barriere commerciali tra Stati europei, all’interno dei quali il commercio di beni e servizi era stato liberalizzato da un paio di secoli. La partecipazione a un sistema pensionistico integrato è diventata obbligatoria solo nel 1985, quando c’erano ancora più di 17 mila fondi pensione legati all’impiego in specifiche località e occupazioni. Solo nel 1995 è diventato possibile mantenere tutti diritti pensionistici quando la carriera lavorativa oltrepassa i confini di tali spezzoni di mercato del lavoro. Sempre in un passato relativamente recente è stata introdotta un’assicurazione federale contro la disoccupazione con regole identiche in tutta la Svizzera. A parità di condizioni nel mercato del lavoro e altre caratteristiche individuali, i disoccupati germanofoni approfittano dei sussidi molto meno a lungo dei francofoni. Non è una sorpresa: in tedesco il lavoro rende liberi e felici, in francese travaglia e affatica. Ma è interessante notare quanto sarebbe assurdo se le più o meno ovvie differenze culturali portassero la Svizzera a prevedere regole che dipendono dalla lingua madre del lavoratore.

Gli svizzeri hanno capito che le differenze vanno riconosciute e rispettate, ma sono tante, e si devono tollerare e smussare per poter stare insieme. Anche se la struttura economica delle regioni svizzere le rende sensibili in modo diverso alle fluttuazioni del tasso di cambio, nessun Cantone contempla l’adozione di una moneta differente dal franco svizzero. Ben consci che convivere e condividere gli conviene, gli svizzeri hanno navigato bene in questa crisi, e in altre precedenti, prendendo decisioni necessarie e coraggiose (come l’introduzione di limiti all’indebitamento pubblico, il salvataggio di una banca enorme e l’accumulo di ancor più enormi riserve valutarie per contenere l’apprezzamento del franco svizzero) con un pragmatismo immune dalle polemiche a volte isteriche che si scatenano su temi analoghi nell’Unione economica e monetaria europea.

Anche in Belgio coesistono culture ancora più visibilmente diverse di quelle che popolano l’Italia e altri Stati nazionali; oggi però non riescono più a governarsi bene insieme.

La mobilità senza regole comuni

La Svizzera e il Belgio sono dunque come due Europe in miniatura, di cui una riesce a risolvere il problema che l’Unione Europea deve affrontare, l’altra no. Per capire come mai, si può ricordare che, come in Svizzera, anche in Belgio si è combattuta una breve guerra civile nell’Ottocento. In Svizzera, la vinsero i cantoni economicamente e socialmente più avanzati che, pur prevalentemente germanofoni, concordarono una condivisione del potere politico molto rispettosa delle autonomie locali. È per questo che l’organizzazione socio-economica della Svizzera restò a lungo meno moderna rispetto a stati-nazione come il Belgio, dove la guerra la vinsero i francofoni, e dove uno Stato piuttosto centralizzato non è mai riuscito a integrare in un’identità nazionale belga la cultura fiamminga che si sentiva conquistata. La globalizzazione ha rovesciato le sorti economiche delle regioni belghe: quelle di cultura dominante hanno perso l’industria pesante, le altre hanno potuto sfruttare porti oceanici e una cultura più adatta al mercato che alla burocrazia. Uno shock economico ha minato una coesione istituzionale più densa, ma meno solidamente radicata di quella svizzera. E si può anche sommessamente notare che in Europa l’ultima guerra l’hanno persa i tedeschi, che a lungo hanno dovuto rinunciare ad asserire la propria specificità nazionale e ora potrebbero attribuire a una qualche superiorità culturale, piuttosto che alla buona sorte, il rigoglioso sviluppo della loro economia manifatturiera dopo la Grande Recessione. Capire che un problema culturale in Europa esiste, e discuterne serenamente, è il primo passo per trovare una soluzione.

Alla soluzione dovrebbe contribuire un processo decisionale pragmatico e condiviso come in Svizzera, piuttosto che ideologico e verticistico come nelle nazioni tradizionali e nel complicato e oscuro patteggiare dell’Unione europea. Forse si può creare un’identità europea, come si fece molti secoli fa per l’identità francese, più recentemente per quella tedesca e, meno bene, quella belga. Più realisticamente, gli europei si possono convincere che hanno problemi da risolvere insieme. Di avere problemi in comune gli svizzeri se ne accorsero ai tempi delle guerre mondiali: è legittimo sperare che l’Europa possa compattarsi di fronte a pressioni esterne provenienti da Russia e Medio Oriente.

Della soluzione deve necessariamente far parte anche un sistema integrato di regole, contributi e sussidi per il mercato del lavoro europeo. Gli svizzeri hanno capito nel secolo scorso che un sistema di welfare locale è incompatibile con un’economia moderna, in cui il lavoro deve essere tanto mobile quanto tutelato e hanno provveduto a introdurre pensioni e assicurazioni federali.

Non è facile risolvere questo problema oltre i confini di Stati gelosi delle loro diverse tradizioni sociali e già internamente tormentati da difficili riforme. In febbraio, una risicata maggioranza ha approvato in Svizzera un referendum che vincola la Confederazione a introdurre quote per i lavoratori provenienti dall’Unione Europea. Del resto, nel 2013 il Belgio ha espulso 2.700 cittadini europei che, in quanto disoccupati da più di sei mesi, pesavano sul suo bilancio nazionale. Ma è chiaro che il problema va affrontato perché, in assenza di un sistema integrato di tutele e sussidi, la mobilità del lavoro è destabilizzante sia per la sostenibilità economica degli stati sociali nazionali (che ne sarà dei pensionati greci e italiani se molti dei loro figli e nipoti verseranno contributi in Germania?), sia per la sostenibilità politica di un mercato comune privo di politiche comuni.

(1) I fatti a cui si fa riferimento sono documentati in “Switzerland: Relic of the Past, Model for the Future?” The EEAG Report on the European Economy, CESifo, Munich 2014, pp. 55–73, Da lì sono tratte anche alcune delle considerazioni qui esposte, ma non tutte. Il tema sarà ulteriormente approfondito in un incontro che si terrà presso l’Università Bocconi lunedì 31 marzo.

Bio dell’autore – Giuseppe Bertola 

Giuseppe Bertola ha ottenuto il PhD in Economia al MIT (Usa). Attualmente è professore di Economia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. E’ stato Assistant Professor e Assistant Director of the International Finance Section presso la Princeton University. Ha collaborato come esperto scientifico ed accademico con FMI, Commissione Europea, Banca d’Italia. E’ condirettore di Economic Policy e del Giornale degli Economisti e Annali di Economia. Oltre ad essere autore di numerosi articoli pubblicati sulle più prestigiose riviste scientifiche e internazionali, ha scritti alcuni capitoli del manuale “Handbook of Labor Economics e Handbook of Income Distribution (North-Holland)”. E’ inoltre coautore (con Fabio Bagliano) di Metodi dinamici e Fenomeni Macroeconomici (il Mulino)

*Giuseppe Bertola ha ottenuto il PhD in Economia al MIT (Usa). Attualmente è professore di Economia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. E’ stato Assistant Professor e Assistant Director of the International Finance Section presso la Princeton University. Ha collaborato come esperto scientifico ed accademico con FMI, Commissione Europea, Banca d’Italia. E’ condirettore di Economic Policy e del Giornale degli Economisti e Annali di Economia. Oltre ad essere autore di numerosi articoli pubblicati sulle più prestigiose riviste scientifiche e internazionali, ha scritti alcuni capitoli del manuale “Handbook of Labor Economics e Handbook of Income Distribution (North-Holland)”. E’ inoltre coautore (con Fabio Bagliano) di Metodi dinamici e Fenomeni Macroeconomici (il Mulino)