Il recente trionfo della «destra» francese, nazionalista, populista e antieuropea guidata abilmente da Marine Le Pen, più che inquietare la sinistra, dovrebbe mettere in agitazione tutti quelli che in Italia e in Europa si riconoscono nella cosiddetta destra. Non tanto sul piano politico – dopo i disastri che governi di ogni colore hanno prodotto negli ultimi dieci anni sarà difficile fare peggio – quanto come al solito su quello culturale, inteso che l’economia, la politica e più in generale la vita dei prossimi decenni sarà funzione dei modelli culturali che elaboreremo. E c’è da tremare al pensiero che le istituzioni, le leggi, gli stili prossimi venturi in qualche modo possano discendere da impostazioni culturali – quali tra gli altri quella della Le Pen – del tutto privi di sostanza oltre che di forma. Il modello culturale della destra nazionalista, antieuropea e sostanzialmente esterofoba, potrà anche essere vincente sul piano del consenso politico nel breve periodo, ma è destinato ad affossare definitivamente l’influenza culturale delle idee di destra, come è già accaduto in Italia con Silvio Berlusconi.
Certamente, come ha scritto bene Massimo Cacciari, la sinistra ha bisogno della destra. Dove il frutto più alto della politica è un signore come Matteo Renzi (ma abbiamo avuto la signora Gelmini ministro dell’università e dell’istruzione….) e dove i «campioni» culturali sono spesso quelli televisivi, senza essere hegeliani capiamo che i destini sono legati. Ma sarebbero forse i pensatori di destra a doversi preoccupare di più della cultura di destra. E il punto è proprio questo.
A destra mancano da parecchio tempo uomini e idee. Certamente Berlusconi ha affossato definitivamente la cultura di destra, occupando con il suo marketing del consenso lo spazio deputato all’elaborazione di idee di più solida e meditata consuetudine. Ma la prevalenza del berlusconismo all’interno della destra è stata resa possibile da una debolezza culturale preesistente, che non fa certo onore a quanti nei venti anni precedenti avevano cercato di dare identità alla cultura di destra. Il Msi era un partito «di movimento» in cui la cultura non aveva di sicuro un ruolo centrale, nonostante alcune rivalutazioni recenti, perlomeno opinabili. In sostanza se la cultura della destra italiana degli anni ’60 e ’70 è stata sopratutto Evola e De Benoist, credo che questa abbia avuto più di qualche colpa nell’aver lasciato crescere i berluschini. Aggiungo che non ogni responsabilità può essere imputata alla cultura fascista (peraltro di molto difficile definizione). Nessuno può negare che all’interno della cultura italiana sviluppatasi negli anni ’20 e ’30 ci siano stati dei momenti di grande valore, che non possono essere liquidati sbrigativamente.
In realtà la cultura di destra si è rifiutata, non solo negli ultimi anni, di misurarsi con i grandi problemi: prima di tutto quello della definizione culturale del fascismo; i problemi dell’economia e del mercato, preferendo lasciare spazio a caricature e orecchiamenti esterofili; poi i problemi della politica e dell’individuo. Mancano del tutto riflessioni sul pensiero liberale-conservatore da quando se ne sono andati personaggi come Sergio Ricossa o Nicola Matteucci. Non vedo all’orizzonte serie considerazioni politiche su un modello di organizzazione dello stato e della società da quando Domenico Fisichella è uscito dall’orizzonte pubblico. Gli insegnamenti di Gianfranco Miglio abbiamo visto che fine hanno fatto. C’è qualche divulgatore del pensiero di destra, ma spesso cade in preda alla stessa confusione che governa la politica. Tanto per essere chiari, la Bossi-Fini non ha nulla di destra. Se mi sforzo di farmi venire in mente il nome di qualche intellettuale che abbia effettiva contezza di una cultura di destra, non mi vengono molti nomi. Tra i viventi forse Pietrangelo Buttafuoco, Franco Cardini, Paolo Isotta e pochi altri.
Nemmeno la cultura del Front National di Marine Le Pen, a parte l’apparato esteriore, può essere considerata in senso proprio «di destra». Sarei tentato di dire che non ha più senso parlare di cultura «di destra» e «di sinistra». Ma é troppo comodo sbarazzarsi di ideologie che magari hanno provocato disastri, che spesso sono state distorte, che hanno dato frutti certamente inferiori alle attese e che almeno in parte hanno contribuito a portarci al disastro in cui versiamo. Potremmo fare una breve disanima di quanto la cultura italiana sta offrendo in tutti i campi e forse arriveremmo alla conclusione che le idee di fondo – che sono quelle che animano qualsiasi creazione dell’ingegno – siano proprio defunte, e abbiano lasciato sul campo solo resti miserandi. Ma resta la convinzione che affermare che le ideologie sono morte è una scorciatoia, una forma nemmeno troppo elegante per non voler accettare il declino culturale (che è causa del declino economico e politico)perché si fonda su un’analisi delle conseguenze più che su una disamina dei contenuti.
Destra e sinistra si separano lungo lo spartiacque della tradizione, della concezione dell’individuo e dell’organizzazione sociale. E in Italia i confini non sono sempre stati così netti. Le contaminazioni, per non dire i compromessi, sono all’ordine del giorno, non so se sia un pregio o un difetto ma è così. Gramsci non è un marxista ortodosso, Croce e Gentile sono due facce opposte di un idealismo che marcia su strade non parallele. Il resto è un pullulare di vie di mezzo. Venendo all’oggi, abbiamo l’impressione che questa tendenza al mix di generi non abbia facilitato lo sviluppo recente di profonde elaborazioni culturali e ideologiche. Destra e sinistra culturalmente parlando sono due poveri nani, ma esistono. Così è molto più facile fare un accordo sulla legge elettorale e perfino trovare una posizione comune sull’Europa che non ricostruire un filone di pensiero. Ma senza pensiero (di destra e di sinistra) non andremo da nessuna parte.