E' quanto pensa di fare il governo abolendo la detrazione che ogni mese consente ai redditi medio-bassi di ricevere circa 65 euro. Il motivo? Scoraggiare la permanenza a casa delle donne e favorire la loro assunzione da parte delle imprese
Durante la conferenza stampa dello scorso 12 marzo, quella delle slide proiettate su un megaschermo, i pesciolini nell’acquario e gli 80 euro in busta paga da maggio per i redditi medio-bassi per il 2014, il premier Matteo Renzi non ha comunicato a tutti gli italiani solo i provvedimenti del Jobs act, ma ha anche accennato al fatto che il Consiglio dei ministri intende presentare al Parlamento una profonda riforma in materia di ammortizzatori sociali.
Tutti i dettagli per il riordino del mercato del lavoro sono però nascosti nell’ultima pagina della scheda di sintesi della legge delega. E, in particolare, nel capitolo “Delega in materia di conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze genitoriali“, al punto c) si legge: “Abolire la detrazione per il coniuge a carico e introdurre il tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito familiare”. L’intenzione dell’esecutivo è cioè quella di scoraggiare la permanenza a casa delle donne e favorire la loro assunzione da parte delle imprese che godrebbero di una serie di vantaggi fiscali.
Parole che pesano come un macigno, ma a sfavore delle stesse donne, delle famiglie monoreddito e degli italiani in difficoltà con il lavoro come quelli che, ad esempio, si trovano in cassa integrazione a zero ore, perché propone come sostitutivo di una detrazione che funziona bene degli incentivi al lavoro femminile.
“Abolire questo bonus che abbraccia una platea amplissima per incentivare pochi – spiega a ilfattoquotidiano.it Enzo De Fusco, coordinatore scientifico della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro – non è la soluzione per evitare che le donne siano costrette a scegliere fra avere dei figli oppure lavorare. Inoltre, non si deve sottovalutare che in questi mesi di crisi nera è aumentato anche il numero degli uomini che sono rientrati nella categoria ‘coniuge a carico’, perché hanno perso il lavoro”.
Sono considerati tali, infatti, marito o moglie che siano – e purché non si sia separati legalmente o effettivamente – chi possiede un reddito inferiore a 2.840,51 euro lordi. Uno status che consente all’altro coniuge di richiedere uno sgravio massimo di 800 euro all’anno per i redditi fino a 15mila euro. Poi, per chi guadagna tra 15mila e 40mila euro il bonus scende tra i 690 e i 720 euro, fino ad annullarsi per chi dichiara più di 80mila euro.
“La detrazione del coniuge a carico si può definire – spiega ancora De Fusco – come uno dei perni del sistema assistenziale italiano, visto che non è solo un ammortizzatore sociale ma serve anche ad alleggerire la pressione fiscale con uno sconto sull’Irpef da pagare attraverso le trattenute in busta paga o in sede di dichiarazione dei redditi”.
I numeri sono chiari. I percettori di questa detrazioni – secondo le stime fornite dall’Agenzia delle Entrate – sono circa 5 milioni di contribuenti italiani, ai quali viene riconosciuto in media un bonus di 65 euro al mese. Importo che non è molto distante dal “regalo” di 80 euro promesso da Renzi, soprattutto valutando che i beneficiari sono gli stessi: i redditi medio-bassi.
Basti pensare che secondo la Cisl, il sindacato che rappresenta i dipendenti pubblici (proprio quelli che rientrano nel target dei redditi medio-bassi, esclusa la dirigenza), sulle dichiarazioni elaborate nel 2012, i contribuenti che hanno ottenuto la detrazione sono il 15,8% del totale con un importo medio annuo di 681 euro.
“La proposta del governo – continua a spiegare De Fusco – è apprezzabile nel concetto, favorendo per la prima volta l’occupazione femminile, ma nel concreto è una pura operazione di cassa che toglie soldi dalla mano destra per darli a quella sinistra. E, in questo, caso – prosegue – parliamo delle donne che per scelta o impossibilità di trovare un lavoro rimangono a casa per curare i figli o i genitori anziani”. Un’operazione che Avvenire, il giornale dei vescovi, ha bollato senza giri di parole come “il contrario delle pari opportunità e come l’ennesimo passo indietro nella tutela della famiglia“.