La scorsa settimana le coste della Sicilia hanno visto approdare oltre due mila migranti, fra cui moltissime donne e minori. Una cifra mai registrata prima, che si somma ai circa 5.500 stranieri sbarcati sul territorio italiano nell’arco di questi primi tre mesi del 2014, e che lo scorso anno erano appena cinquecento. Persone per lo più provenienti da Stati critici some Nigeria, Gambia, Eritrea, Siria e Libia, e che avrebbero quindi diritto a beneficiare dei programmi di protezione e sostegno destinati ai rifugiati.
Come al solito si parla dunque di emergenza, nonostante fosse più che prevedibile che con l’arrivo della bella stagione gli sbarchi sarebbero divenuti sempre più frequenti e corposi. Ma invece che stilare un piano di accoglienza e ripristinare le strutture predisposte, tutte le risorse sono state devolute all’operazione Mare Nostrum, le cui navi militari sono state trasformate in centri per la prima identificazione e per il rilievo delle impronte digitali, anche con l’aiuto di personale inviato dal ministero dell’interno.
Nel frattempo si sono moltiplicati in tutta l’isola i cosiddetti Cas (centri di accoglienza straordinaria), che proprio in virtù della loro straordinarietà sono spesso ridotti a tendopoli o accampamenti in palestre, masserie di campagna o altre strutture inadeguate, con evidenti carenze sia in termini igienico-sanitari, sia di professionalità degli operatori addetti.
Come spiega Lorenzo Passanante, attivista del Collettivo LibertArea di Campobello di Mazara: “I centri di accoglienza straordinaria che il prefetto Falco ha fatto aprire nell’ultimo periodo sono spesso stati assegnati alla gestione di cooperative non sempre certificate per il settore, con operatori che non hanno un curriculum adeguato per l’attività che sono chiamati a svolgere. Inoltre, facendo leva sulla straordinarietà e l’emergenzialità del caso, i richiedenti asilo vengono spesso alloggiati in centri di identificazione ed espulsione, pur avendo diritto di soggiornare all’interno dei Cara (centri d’accoglienza per richiedenti asilo). Lo dimostra la vicenda del Cie di Milo a Trapani, e dei 77 gambiani richiedenti asilo che sono stati rinchiusi nella struttura dopo il respingimento differito del questore di Siracusa, uscendone solo dopo diverso tempo”.
Lo stesso Cie di Milo che avrebbe dovuto chiudere il 28 febbraio di quest’anno per lavori di ristrutturazione, ma che risulta attualmente ancora aperto. Come si spiega nel blog del professor Fulvio Vassallo Paleologo (docente di Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero) la decisione era immaginabile, perché dopo “la chiusura di sette Cie su dodici in Italia, Trapani rimane uno snodo strategico, al quale il ministero dell’Interno non intende rinunciare, anche per la vicinanza con l’aeroporto di Punta Raisi (Palermo) dal quale continuano ad essere rimpatriati in Tunisia i ragazzi riconosciuti dal console del Paese”.
Valeria Bertolino del Comitato 29 dicembre 1999, spiega: “Alla fine hanno deciso che i lavori saranno fatti all’interno del Cie aperto. Serve una rapida messa in sicurezza della struttura, e l’intenzione sarebbe anche quella di alzare le recinzioni esterne per scongiurare le frequentissime fughe, anche se non serviranno a niente. Quindi sono soldi spesi inutilmente, che si aggiungono ai circa sei milioni serviti per la costruzione dello stabile, inaugurato nel 2011.
Inoltre, a causa dei due bandi di gara conclusi con un niente di fatto, la struttura continua a essere gestita dal Consorzio Oasi, nonostante abbia da tempo ricevuto la revoca per inadempienza. A pagarne le conseguenze sono quella settantina di ragazzi ancora rinchiusi nel centro, che si sono visti tagliare anche i servizi di base. Così come gli operatori, oramai ridotti a un numero esiguo, perché non pagati o a stipendio ridotto. Lo stesso è accaduto col consorzio Gradisca d’Isonzo e Connecting peolple di Castelvetrano”, entrambi coinvolti in inchieste che hanno portato a diversi rinvii a giudizio con accuse che spaziano dall’associazione a delinquere finalizzata alla truffa dello Stato, inadempienze di pubbliche forniture e false fatturazioni.
Thierno Wade è un ragazzo senegalese di 34 anni recentemente uscito dal Cie di Milo. “Sono finito nel centro perché mi hanno trovato senza documenti – racconta – ma in realtà io vivo in Italia da sette anni e ho sempre lavorato. Anche per questo non sopportavo la vita dentro il Cie, perché non sono abituato a stare tutto il giorno senza fare niente, bloccato in un posto. Io con alcuni compagni di stanza pulivamo i bagni e sistemavamo la camera pur di fare qualcosa, anche perché ci piaceva vivere in un luogo pulito. Così toglievamo un po’ di lavoro agli operatori, che erano molto gentili con noi nonostante in tanti non prendessero lo stipendio da tempo. Una mancanza di fondi che si è fatta sentire anche per molti di noi, che dormivamo senza coperte nel mese di dicembre e non ricevevamo quasi più le schede telefoniche previste di norma, peraltro con ricariche così basse che chiamare in Africa diventava praticamente impossibile”.