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Lavoro: più diritti per tutti…per le donne un po’ di più

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Secondo una indagine Istat, oltre la metà delle donne che lascia il lavoro perché in gravidanza, non lo fa per libera scelta, ma per obbligo. Uno dei modi per forzare questa volontà è quello della lettera delle dimissioni in bianco. Pur di lavorare, si è disposti a firmare in bianco, in una lettera senza data, il proprio futuro licenziamento; una lettera che verrà tirata fuori per una malattia, un infortunio, per un comportamento sgradito, magari uno sciopero o, caso più diffuso, per una gravidanza. Insomma, uno strumento di vile ricatto nelle mani del datore di lavoro, un potere di licenziamento arbitrario.

In pratica, i contenuti della legge 188 del 2007 – (Disposizioni in materia di modalità per la risoluzione del contratto di lavoro per dimissioni volontarie), che nacque per prevenire questa pratica illecita, ma fu abrogata dal governo Berlusconi – sono stati ripristinati e il nuovo testo di legge è stato approvato due giorni fa alla Camera incassando 300 sì, 101 no e 21 astenuti. Hanno votato contro Ncd, Sc e M5S.

In Italia mancano le politiche a sostegno della famiglia. Mancano le strutture pubbliche e servizi di welfare. Se lavorano e hanno figli, sette donne su dieci si appoggiano a famiglia di origine e amici o a servizi privati. Il costo economico e il costo umano sono …disumani.

Marisa Nicchi di Sel, nel suo intervento in aula per la nuova legge, ha posto l’accento proprio su come sia venuto fuori con forza nella discussione parlamentare, il fatto che la maternità costituisca un costo per le imprese, ma anche di come sia forte la volontà delle donne di lavorare e di diventare madri, nonostante tutto. “Oggi è un giorno in cui il parlamento, di fronte a un evidente conflitto, attraverso un confronto democratico libero, aperto, ha scelto di stare dalla parte di chi ha meno potere (…) Perché le donne italiane vogliono lavorare e decidere di mettere al mondo i figli. Vogliono lavorare a modo loro, con tempi umani, e vogliono prendersi cura del vivere.”

La parola passa ora al Senato.

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