Nel 1943 Michal Kalecki pubblicò un interessante e lungimirante articolo su Political Aspects of Full Employment nel quale spiegava come la ricetta keynesiana per la piena occupazione si sarebbe scontrata con l’opposizione dei capitalisti. La politica keynesiana in realtà avrebbe assicurato crescita economica, stabilizzazione del ciclo economico e pieno impiego per i lavoratori. Kalecki però sosteneva che una situazione di vera e prolungata piena occupazione avrebbe comportato un rafforzamento dei lavoratori e dei sindacati: senza il rischio di disoccupazione i lavoratori avrebbero fatto crescere le richieste di aumenti salariali, di migliori condizioni di lavoro, di riduzione dell’orario, di maggiori garanzie. Dopo un persistente periodo di pieno impiego i lavoratori avrebbero dimenticato le paure e le difficoltà legate alla disoccupazione e sarebbero diventati arroganti, avrebbero preteso una fetta via via più grande della torta distributiva. La stessa disciplina sul posto di lavoro avrebbe potuto saltare. Questo scenario avrebbe condotto a uno scontro distributivo tra lavoro e capitale. I datori di lavoro quindi possono temere – secondo Kalecki – la politica economica keynesiana perché essa rafforza il lavoro e crea le condizioni per richieste crescenti da parte dei lavoratori.

La domanda, quindi, è: il capitalismo è compatibile con il pieno impiego? Dopo una fase di pieno impiego non si rischia che a seguito del conflitto sociale il capitale, sentendosi minacciato, cerchi di ripristinare la disciplina? Secondo Kalecki, infatti, il capitale avrebbe dovuto mantenere una certa quota di disoccupazione strutturale che servisse da monito agli occupati a non eccedere nelle loro richieste. Questo a sua volta avrebbe richiesto che i capitalisti impedissero allo Stato di promuovere la piena occupazione.

Questa situazione descritta da Kalecki è ciò che effettivamente accadde a fine degli Anni ’60. La grande fiammata di scioperi e di scontri tra lavoro e capitale che ebbe luogo tra il 1969 e il 1975 ebbe la natura di una sorta di rivoluzione delle aspettative crescenti. Aumenti salariali, nuove condizioni di lavoro, statuti e norme a protezione degli occupati, rivendicazioni di cogestione delle imprese portarono a milioni di giornate di lavoro perse per scioperi e a una situazione di grave minaccia per gli equilibri delle imprese. Quelle aspettative potevano essere soddisfatte solo al prezzo di una profonda compressione dei profitti e di una trasformazione radicale dell’economia di mercato in un sistema sottoposto a norme, a politiche pubbliche di vera pianificazione soggette a ulteriori pressioni da parte degli elettori.

Gli Anni ’70 furono anni di elevata inflazione, riflesso di questo scontro distributivo acceso e inarrestabile. Si pensi che in Italia nel 1980 l’inflazione era al 21 per cento, nel Regno Unito al 14 per cento. Quella stagione di rafforzamento del lavoro condusse allo “sciopero del capitale” e alla svolta liberista del 1979 negli Stati Uniti (Ronald Reagan) e poi nel Regno Unito (Margaret Thatcher) e poi progressivamente in molti altri paesi.

Quella svolta politica ed economica aveva l’obiettivo di restituire potere ai capitalisti, di ripristinare la disciplina in fabbrica, di tutelare gli azionisti, di ricreare condizioni adeguate per l’investimento privato e per il profitto. Furono privatizzati molti servizi e imprese pubbliche con l’obiettivo di renderli più efficienti e di ridurre il peso dello Stato. La concorrenza venne introdotta in molti settori che prima ne erano sprovvisti, dalla sanità all’istruzione ai servizi pubblici.

Quella lunga stagione 1980-2008 ha condotto a risultati misti, abbattimento dell’inflazione, crescita in molti paesi, soprattutto i paesi anglosassoni, grande diffusione di innovazioni tecnologiche, apertura dei mercati al commercio mondiale e “grande moderazione”: stabilità dei prezzi, moderazione salariale, minori oscillazioni del ciclo.

Di pari passo però si è enormemente accresciuta la diseguaglianza in tutti i paesi. Diseguaglianza di reddito, di ricchezza e di opportunità. Tramontava l’impegno preso dalle democrazie occidentali di assicurare lavoro a tutti, crescita economica, sicurezza sociale, minori disparità.

La crisi del 2008 che ancora esercita i suoi effetti è stata la prova del fatto che il ciclo non fosse finito, che il capitalismo rimane un sistema instabile e soggetto a crisi periodiche. La diseguaglianza è stata alla base della crisi finanziaria. Risolvere la crisi significa oggi ridurre le diseguaglianze.

Ci troviamo in una situazione di grave incertezza. E’ immaginabile un ritorno al compromesso keynesiano, come auspica parte della sinistra italiana ed europea? E’ credibile una proposta di aumento della spesa pubblica, di ritorno all’intervento pubblico in uno scenario in cui i debiti pubblici accumulati nei paesi sono prossimi o superiori al 100 per cento del Pil?

La lezione di Kalecki è superata? Assisteremo a una nuova oscillazione del pendolo?

Va trovata forse una nuova ricetta, bisogna essere coraggiosi e non sudditi del passato.

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