Nessuno meglio di Yasmina Reza, una delle più grandi commediografe viventi, capace di saltare dal teatro alla prosa, può dirci qualcosa di significativo sul dialogo. Nota per Il dio del massacro da cui Roman Polanski ha tratto Carnage , è anche una sublime scrittrice di romanzi e racconti, come Felici i felici (Adelphi).
L’incontro è a Milano, durante Bookcity. Reza è intensa come la sua scrittura: non spreca parole, non le usa mai a caso, cerca sempre un termine preciso che dia un senso superiore al discorso. Una tensione del genere rende emozionanti le chiacchierate con lei, è una tensione che assomiglia a quella che si trova nelle sue opere. Nelle sue pièce spesso si parte da una banale discussione per arrivare al massacro.
Mi racconta il lavoro che fa intorno al pretesto per far tirare fuori dai suoi personaggi tutta la loro rabbia e infelicità?
Lo scatto nasce sempre da qualcosa di piccolo e preciso. Il pretesto non è un pretesto: è la piccola cosa che fa slittare tutto, è un «rivelatore». Se ci arrabbiamo per la scelta di un formaggio, come all’inizio di Felici i felici , può voler dire che la coppia è in uno stato di tensione tale che il minimo incidente domestico può portare alla catastrofe. Dato che scrivo tutto al presente, non posso usare dei «rivelatori» più profondi, che provengono dal passato. Devono essere precisi e immediati.
In Uomini incapaci di farsi amare , Adam chiede a dio di aiutarlo a scrivere. «Aiutami a trovare le parole per dire la verità», dice. «La verità senza desiderio di originalità, senza desiderio né più né meno ». Che verità cerca lei?
Quando scrivo non voglio essere falsa. Quando si ha talento, è molto facile essere falsi. Il talento è pericoloso, perché si è a proprio agio con le parole. A un tratto qualcosa suona bene, è carino… Si può essere facilmente provocatori e inutilmente violenti, però funziona. E io non voglio questo. Voglio potermi rileggere fra dieci anni e risentire l’emozione che mi ha portato a fare quella cosa. Ed è molto difficile, soprattutto quando vai avanti con la carriera. Non avevo di questi problemi a vent’anni.
Dopo che succede?
Dopo, tu fai quella che si definisce una carriera letteraria, ci sono persone che ti amano, altre no, ma hai sentito quello che dicono di te. E si rischia di essere un po’ guastati, soprattutto dai complimenti. I complimenti te li ricordi e sono dei nemici. Perché se dicono di te: Sa fare bene i litigi, allora tu ti dici: So fare bene i litigi. E ti ritrovi con qualcosa che sai fabbricare ma che magari non è del tutto giusto in quel contesto e in quello spazio. Invece lo sforzo deve restare presente. Ti devi sforzare di essere sempre un debuttante.
Nel teatro costruisce il crescendo con delle domande o la variazione di una frase. Nella prosa invece il ritmo viene dalla punteggiatura, la variazione funziona per analogia o per contrasto con il resto del discorso. Sono tecniche studiate oppure va a orecchio? Come si fa a scrivere un dialogo che suoni così naturale? É una questione di ritmo?
É chiaramente una questione di ritmo, di orecchio. In un certo senso assomiglio di più a un musicista o a un pittore che a uno scrittore. Il mio percorso è iniziato con il teatro che è una scuola straordinaria, perché è molto tecnico. É un’arte difficile, le costrizioni sono molte: bisogna raccontare tutto in uno spazio chiuso, c’è solo il corpo muto e il dialogo. Questa scuola è potente perché ti insegna ad ascoltare, a capire come una frase può risuonare dopo un silenzio. Quando sono passata alla prosa ho avuto l’impressione di ritrovarmi in un campo di margherite dove potevo saltellare.
La prosa come un campo di margherite?
Sì, mi dava una sensazione di libertà, tutto diventava possibile, non c’erano più costrizioni. Ma io ho conservato il senso della costrizione perché era il mio modo di esprimermi. Ho conservato il tempo limitato, il presente, i pochi personaggi. L’ho fatto senza volere, era una cosa istintiva. Salvo che nei dialoghi, dove potevo utilizzare tutti i colori della letteratura, dire una cosa e scrivere che il personaggio ne sta pensando un’altra, per esempio.
Come fa a sentire se un dialogo funziona o no? Se li recita a voce alta? Cosa le fa capire se una battuta è giusta o sbagliata?
Scrivo e poi ripeto a voce alta. A volte non ne bisogno, sento subito se funziona o no. Altre devo fare le prove. Non parlo a voce alta, mormoro. A volte lo faccio anche per strada, perché scrivo molto mentre cammino: la gente mi guarda e mi prende per pazza.
Nelle sue opere c’è un’azione drammatica che investe anche gli oggetti, che finiscono per canalizzare la violenza dei personaggi. Mi può parlare di questo rapporto con le cose?
Penso che gli oggetti siano dei nemici intimi. Vivono la loro vita: cadono, scompaiono, non funzionano, invecchiano come noi. Siamo sempre minacciati dagli oggetti, abbiamo una relazione continua con loro, e non è una buona relazione. Non andiamo d’accordo. L’oggetto si sopporta solo se è perfettamente adattato al nostro bisogno, quando sta al suo posto, immobile. Ma non succede mai.
Nelle pièce, spesso costruisce il crescendo che porta all’esplosione dei rapporti, passando da un tema all’altro, apparentemente senza nesso. Eppure il segreto è tutto qui…
É la chiave stessa della mia scrittura. Molti mi hanno chiesto se ho fatto o studiato psicanalisi, perché la psicanalisi procede per analogie. Ma io non l’ho mai fatta né studiata, è una cosa istintiva. Perché tutto è legato, siamo degli esseri misteriosamente intricati e c’è come un filo che è impossibile sciogliere. Per me è naturale procedere così, ragiono poco sulla mia scrittura, non mi guardo troppo scrivere.
Ho notato che nel teatro usa le domande per rendere incalzante il dialogo. É come se la domanda generasse rovina. Lo stesso succede con le ripetizioni, la frase si aggrava, diventa sempre più violenta. Mi può spiegare questa tecnica?
Prendiamo Art, in una scena si ripete la parola «capolavoro» tre volte con intonazioni diverse. Ognuno mette sulla parola «capolavoro» l’intenzione che ha. É una scrittura che si affida completamente all’atto – re, la mia. Non è una tecnica, è un modo di dare spazio all’attore. É per questo che quando recitano dei pessimi attori è una catastrofe.
Lei ha scritto: «Certi eventi, certi esseri sono come i paesaggi. Possiamo coglierli (o ricordarcene) soltanto passando, di sfuggita»
Ci vuole distanza. Gli avvenimenti decisivi sono come la luce delle stelle morte, sono cose viste e sentite in un certo momento, ma la loro luce persiste. E io scrivo perché la luce persiste.
Gli errori che uno scrittore non deve mai commettere
– Niente spiegazioni
– Non barare, niente trucchi
– Non annoiarsi a scrivere