C’erano le mazzette e i legami con le organizzazioni criminali; un patrimonio illegale e le società in Svizzera. I motivi che potevano nascondersi dietro l’omicidio di Paolo Vivacqua erano tanti. “Ma alla fine – sospira un investigatore – è stato ammazzato per due banalissime cose: i soldi e la gelosia”. Ci sono voluti due anni e mezzo di indagini certosine per mettere al posto giusto i tasselli di questa storiaccia. Dove i personaggi sembrano balzati fuori dalla penna oscura di Giorgio Scerbanenco. Solo che qui non siamo tra i marciapiede di Milano, tra trafficanti di ogni genere e mezze tacche del crimine dal coltello facile. Qui siamo tra i capannoni della ricca Brianza, a Desio, 40mila anime: tra imprenditori spregiudicati e sbandati in cerca di fortuna facile. Anche qui però – come nelle indagini di Duca Lamberti – ci sono sbirri meticolosi che non interrompono mai la caccia.
Il lavoro dei carabinieri guidati dal tenente colonnello Gerardo Petitto si è concluso venerdì 28 marzo con l’arresto di cinque persone, considerate i mandanti e gli esecutori materiali della morte del 51enne Vivacqua. Non è stato facile per i segugi del capitano Cataldo Pantaleo risolvere l’omicidio del rottamaio – agrigentino di origine ma da trent’anni a Desio – trovato cadavere nella sua azienda il 14 novembre 2011 (leggi). A prima vista quei sette colpi calibro 7 e 65 sparati a bruciapelo assomigliavano a un’esecuzione mafiosa. E nel passato di Vivacqua gli indizi per scivolare su quella pista non mancavano.
Perché il suo impero di aziende e immobili non si fondava solo sul recupero del ferro, ma anche sull’evasione fiscale, sulle mazzette ai politici locali e sui legami con personaggi legati alla criminalità organizzata a cui prestava denaro. Tra questi anche Domenico Zema, detto Mimmo, arrestato a marzo durante l’operazione contro la banca della ‘ndrangheta in Lombardia (leggi). Non solo. Perché il rottamaio partito da Agrigento trent’anni prima con le tasche vuote, qui nella ricca Brianza, era riuscito ad allacciare contatti con la politica. Come? Grazie alle mazzette (1 milione e 160mila euro) che – secondo l’accusa – cedette insieme ad altri imprenditori a Maurizio Altobelli, assessore comunale di Carate Brianza finito nel 2012 ai domiciliari (leggi). L’obiettivo era quello di far trasformare da agricole a commerciali e residenziali cinque aree e un fabbricato. Se non fosse stato ammazzato probabilmente sarebbe finito in carcere anche Vivacqua coinvolto, appena prima di morire, anche nell’inchiesta “metal connection” su un giro di false fatture per 600mila euro.
Erano tanti gli scheletri nascosti nell’armadio di questo imprenditore. Un uomo, che quando incrociava per strada il comandante della compagnia dei carabinieri, si toglieva il cappello in segno di rispetto. Ed erano tante anche le piste davanti ai militari che le hanno setacciate, seguite e poi abbandonate. Fino alla svolta. La criminalità organizzata non c’entra niente con la morte di Vivacqua. Perché a volerla – secondo l’accusa – è stata Germania Biondo, la persona che per una vita gli è stata accanto, fino alla separazione nel 2007. Quando l’uomo lascia la moglie per Lavinia Mihalache, la donna romena che gli dà un altro figlio. Ed è proprio questo nuovo arrivo a scatenare la paura e la gelosia della Biondo, 48 anni. L’ex moglie e madre dei primi tre figli – secondo l’indagine – è terrorizzata dall’idea di essere estromessa dalla società di Vivacqua e soprattutto dal suo patrimonio, fatto in gran parte di soldi contanti: una valigetta con 6 milioni di euro. Spariti dai conti correnti a suon di prelievi da 300mila euro effettuati dal rottamaio, dai figli e dai suoi prestanome. Tanti soldi, frutto di vendite di terreni divenuti poi edificabili a Carate Brianza. La Biondo inizia una ricerca ossessiva di quel “tesoro”, che la spinge ad assoldare l’investigatore privato Attilio Cascardo. Il piano è semplice: trovare un modo per incastrare l’ex marito e mettere finalmente le mani su quei soldi. Un’idea abortita in fretta, che lascia spazio alla decisione definitiva presa insieme al suo amante Diego Barba (56 anni arrestato): far fuori Vivacqua, che nonostante la separazione continua a vivere con lei nella bella villa con piscina a Desio.
Per ucciderlo, Barba – malmenato da Vivacqua e dai figli durante una vacanza in Sicilia – si rivolge al suo vecchio amico d’infanzia Salvino La Rocca, 46 anni, rimasto coinvolto nel ’98 nell’operazione “Revival” che decapitò la Stidda siciliana durante la sanguinosa guerra contro Cosa Nostra. La Rocca propone di affidare il lavoro a due balordi: Antonino Giarrana e Antonino Radaelli. Per sei mesi i due seguono Vivacqua, ne studiano le mosse, memorizzano le sue abitudini. E incassano 60mila euro pattuiti con la Biondo. Poi arriva la mattina del 14 novembre 2011. Quando i due killer seguono in scooter l’imprenditore, fino al suo ufficio di via Bramante d’Urbino 1. Radaelli scende, entra e lo fredda con sette colpi. Ma di quei sei milioni nessuna traccia.
Le morti però non si fermano. Nemmeno sette mesi dopo viene uccisa la consuocera di Paolo Vivacqua, Franca Lo Jacono 61 anni (leggi). Viene ritrovata con la gola tagliata nella sua casa di Desio. Gli assassini provano a sparargli, ma la pistola calibro 7 e 65 fa cilecca. “Rapina finita male”, titolano i giornali. Passano 24 ore e i carabinieri arrestano Antonino Giarrana, Antonino Radaelli e Raffaele Petrullo (il palo) che avevano fatto irruzione nell’appartamento in cerca di una valigetta piena zeppa di euro. I due sospettavano che la compagna di Vivacqua avesse nascosto i sei milioni qui, in casa della Lo Jacono. Perché anche loro ormai, portato a termine il lavoro assegnato dall’ex moglie e dall’amante, si sono lanciati alla ricerca di quel bottino milionario.
Ad incastrarli, però, ci sono le tracce di sangue che li rimangono appiccicate addosso e la “cantata” di Petrullo. Finiscono in carcere a Monza a mani vuote. Tengono la bocca chiusa davanti al gip, non confessano niente. Ma è in cella che parlano troppo. Gli investigatori drizzano le orecchie e risalgono a mandanti e movente. Incrociano i dati, vivisezionano le operazioni finanziarie e intercettano l’ex moglie e l’amante. L’ordinanza emessa dal gip Alfredo De Lillo su richiesta del pm Donata Costa è nata da un’indagine magistrale che ha incastrato Biondo, l’amante Barba (che nega la relazione), l’intermediario La Rocca e i due killer. Ma sul tavolo del procuratore Corrado Carnevali il fascicolo sulla morte di Paolo Vivacqua rimane aperto. Manca l’ultimo tassello. Che fine ha fatto la valigetta con quei maledetti sei milioni?